Volare più sicuri

Tocca alle macchine a raggi X perquisire il bagaglio; gli agenti della sicurezza israeliana hanno una cosa più importante da fare: capire le persone

Da un articolo di Ann Goldberg

image_2283Praticamente scavalcandomi, il tizio più o meno trentenne dall’aria non ebrea si installò nel sedile accanto al mio, uno degli ultimi ad imbarcarsi sul volo da Tel Aviv. “Wow, questi della sicurezza israeliana mi hanno davvero dato del filo da torcere. Suppongo che sappiano quello che fanno. Peccato che in molti altri paesi non sia così”.
Non volendo sembrare poco cordiale, gli chiesi che cosa li aveva spinti a riservargli quel trattamento. È saltato fuori che era il rappresentante in Medio Oriente della sua ditta e di conseguenza era stato di recente in molti paesi arabi: tutti quei timbri sul suo passaporto aveva fatto suonare i campanelli d’allarme. Gli avevano chiesto la ragione di tutte quelle visite, e quando aveva risposto che viaggiava per affari, l’agente l’aveva squadrato da capo a piedi, con la sua T-shirt, i jeans e i logori scarponcini da trekking, e aveva detto: “Non sembri un uomo d’affari. Non sei vestito come un uomo d’affari. Perché dovrei credere che hai fatto tutti questi viaggi per affari?”.
L’uomo aveva frugato nella sua borsa e tirato fuori vari documenti che dimostravano il suo lavoro. Non bastava ancora.
“E allora perché sei vestito così?”
“Perchè mi piace camminare e scalare montagne quando sono in viaggio, e l’abbigliamento casual è più comodo per viaggiare”.
“Ah davvero, ti piace scalare montagne? E qual è l’ultima che hai scalato? Che attrezzatura hai usato? Come ti prepari per ogni scalata?”
Le domande dettagliate erano arrivate a raffica ed egli aveva dovuto rispondere a ognuna in modo plausibile, prima di riuscire a salire a bordo. Ma non si era sentito preso di mira solo perché non era ebreo. Mi raccontò che anche un passeggero con la kippà in testa aveva destato sospetti ed era stato interrogato riguardo alle pratiche religiose ebraiche, domande cui solo un ebreo praticante sarebbe in grado di rispondere, giusto per controllare che la kippà fosse indossata davvero perché era ebreo e religioso, e non come travestimento. Come è noto, in passato è accaduto che dei terroristi si travestissero da ebrei religiosi.
Magari il personale addetto alla sicurezza in altri aeroporti fosse così attento a ciò che conta davvero, e meno a cose irrilevanti. Oggi deodoranti e profumi vengono abitualmente tolti dal bagaglio a mano, come pure il dentifricio. All’aeroporto Heathrow di Londra sono rimasta esterrefatta nel vedere un biberon tolto dalla bocca di un bambino perché venisse assaggiato dal padre (suppongo per dimostrare che non si trattava di esplosivo velenoso) prima che i genitori potessero restituirlo al bambino urlante.
Ma in tutti quegli aeroporti nessun agente di sicurezza sembra pensare veramente alla persona che gli sta davanti. Non cercano persone sospette, ma l’osservanza di norme e regolamenti. Un agente con cui ho parlato mi ha detto di non essere autorizzato a scegliere di perquisire o interrogare un passeggero perché musulmano, anche se gli sembra sospetto, perché non è politicamente corretto ed è offensivo verso tutti i musulmani. Tutti devono essere soggetti alle stesse regole di sicurezza.
A Tel Aviv vale esattamente il contrario. Qui, quando siamo in fila per i controlli di sicurezza, ciascuno di noi viene osservato attentamente per quello che è, occhi negli occhi. Qui, diversamente da quanto avviene in quasi tutti gli altri paesi, non sono considerati importanti la bottiglietta, il deodorante o il dentifricio che potremmo avere con noi. Ciò che conta siamo noi come individui. Non c’è correttezza politica nella sicurezza a cui siamo tutti sottoposti.
Questi agenti sanno quello che cercano e quello che li preoccupa. Tutti dobbiamo rispondere a domande su dove siamo stati, che cosa abbiamo fatto. Anche quelli con passaporto israeliano non ne sono del tutto esenti: i passaporti si possono sempre falsificare. Tocca alle macchine a raggi X fare il grosso della perquisizione del bagaglio; gli agenti della sicurezza hanno una cosa più importante di cui occuparsi: capire le persone.
Anche se sono abbastanza sicura di aver l’aria di una piccola signora innocua, le ultime volte che sono partita da Tel Aviv non sono sfuggita al terzo grado. L’agente della sicurezza ha guardato il mio passaporto israeliano e ha chiesto: “Hai bambini?”
“Sì”, ho risposto.
“Come si chiamano?”.
Ho recitato i loro nomi, ma naturalmente a posteriori ho capito che avrei potuto dire qualunque nome, visto che non compaiono sul mio passaporto. È chiaro che l’agente voleva solo controllare che non avessi esitazioni e che non avessi l’aria di mentire in qualche modo.
Quando mia sorella venne a trovarci da Teaneck, con quel suo aspetto da comunissima madre di famiglia ebrea americana, l’agente della sicurezza della El Al le chiese: “Sei religiosa?”
“Sì”.
“A quale shul [in yiddish: sinagoga] appartieni?”
Glielo disse.
“Qual’era la parasha [lettura settimanale della Torah] della settimana scorsa?”
Mia sorella arrossì, molto imbarazzata. “Ehm, non lo so, sono arrivata tardi al tempio”, mormorò.
Ma la risposta era plausibile e fu sufficiente a soddisfare l’agente, che la lasciò andare senza altre domande.
Mentre ci dirigevamo verso la pista, mi rendevo conto che, malgrado tutte le lamentele di tanti passeggeri per la pioggia di domande a cui sono sottoposti, tanto più faticoso è per noi salire a bordo dell’aereo, tanto più sicuri siamo una volta in aria.

(Da: Jerusalem Post, 04.09.08)