Yehoshua Kenaz

image_1217Yehoshua Kenaz è considerato uno dei più grandi scrittori israeliani. Nato a Petach Tikva nel 1937, ha studiato filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme e letteratura francese alla Sorbona. Già traduttore di classici francesi e redattore dell’autorevole Ha’aretz, è autore di romanzi e racconti tradotti in tutto il mondo.

LA GRANDE DONNA DEI SOGNI
Tra il ciliegio e la discarica, in un condominio alla periferia di Tel Aviv, vite parallele di uomini qualunque si intersecano al ritmo del vivere quotidiano. Vite apparentemente normali, minate però dalla disgregazione interiore e da una crescente violenza, prima di tutto contro se stessi, che nasce nel vano tentativo di distruggere gli impulsi minacciosi dell’anima. Con uno stile straordinariamente equilibrato, Kenaz riesce a creare un’atmosfera compressa di allucinazioni e di paure, fatalmente destinate a diventare realtà. Un romanzo magistrale che mette a nudo la parte più oscura della psiche della società israeliana, in cui le ferite non ancora rimarginate della Shoà e dello sradicamento, unite alle difficoltà del presente, scatenano irrefrenabili impulsi autodistruttivi.

IL BRANO letto al Convegno dell’Università di Milano
Quando il padre di Levanà si arrabbiava prendeva dall’armadio il grande coltello a serramanico, faceva scattare la lama e la richiudeva, e la lama ben affilata riluceva come un lampo nella penombra della stanza.
Clic-clac, clic-clac – la lama scattava e rientrava. Il padre di Levanà le urlò: «Lurida ladra!».
Tacque per un attimo, poi la guardò con un’occhiata penetrante: «A casa mia ho una figlia ladra e bastarda!» disse il padre di Levanà.
Levanà non pianse. Come se non avesse mai pianto, neppure quando l’infermiera aveva trovato le uova di pidocchi sulla sua testa e le bambine avevano detto «Pidocchi! Pidocchi!» e la mano della maestra Ahuva le aveva carezzato la testa.
Cercarono nei suoi vestiti e nei vestiti di suo fratello ma non trovarono niente. Bella si sedette su una sedia accanto al tavolo e annunciò che non si sarebbe mossa finché non le avessero restituito i soldi che le avevano rubato. Seguì le ricerche temendo che il padre di Levanà non facesse un buon lavoro, suggerendogli dove cercare. Il padre di Levanà stava davanti a Bella la Nera e la sua faccia era tornata calma ed educata, come se non si fosse mai arrabbiato. Sorrise a Bella, un sorriso di scusa cortese, e allungò le mani in un gesto di impotenza e rassegnazione. Era evidente che in questo modo cercava di chiudere quella fastidiosa questione, ma dopo una fugace occhiata a Bella gli fu chiaro che quanto aveva fatto fino a quel punto non era sufficiente, e che la donna non sarebbe stata soddisfatta finché non fosse passato a un livello di maggior violenza e avesse adottato mezzi più efficaci. Afferrò dunque Levanà per i vestiti e in un batter d’occhio le diede due violenti schiaffi sulle guance, stordendola. Appena l’uomo ebbe finito questo rapido lavoro, asciutto e pulito, si voltò verso Bella, sollevò le sopracciglia e chiese con gli occhi se bastava.
Il fratello di Levanà saltò dal proprio posto, balzò verso il padre e con molta forza gli afferrò la mano. La faccia di Avram era contratta per la rabbia e per il dolore. Il padre lo guardò incredulo, senza capire. Tra le rughe delle guance dell’uomo si delineò una specie di sorriso. Guardò Avram, la sua faccia infuriata, le mani del ragazzo che stringevano le sue. Il padre di Levanà cercò di liberare le proprie mani ma trovò molta resistenza. Quanto maggiore era lo sforzo, tanto più ampi erano il sorriso e lo stupore sulla sua faccia. Cercò di nuovo di liberare le mani, questa volta con tutta la sua forza, e alla fine le mani di Avram lasciarono la presa. Il padre lo spinse verso il tavolo, gli si avvicinò lentamente e lo fissò con due occhi penetranti. Avram non si spaventò, rimase in piedi con la testa protesa in avanti, come se volesse balzare di nuovo. Il padre si avvicinò al tavolo, prese il coltello, fece scattare la lama e porse il coltello ad Avram. Questi guardò il coltello e gli si illuminarono gli occhi: quando il padre faceva scattare e richiudeva la lama, Avram dimenticava tutto. Gli tese la mano. Ora ormai la sua attenzione non era rivolta a nient’altro. Si sedette al tavolo, al posto di suo padre, a giocare con il coltello. I suoi occhi erano attratti da questo gioco, come incantati.
Di nuovo gli occhi del padre di Levanà chiesero a Bella se continuare. Levanà era immobile al suo posto. Il padre la prese di nuovo a schiaffi e questa volta non gliene risparmiò, né si affrettò a girarsi verso la Nera, che stava seduta su una sedia davanti a lui, per vedere se era soddisfatta. Questa volta aveva deciso di chiudere la questione in un’unica tirata e basta. Perché tutta questa fretta? Lui se ne stava tutto il giorno nella stanza, non aveva niente da fare.
Lavorava di notte come custode in una fabbrica all’ingresso della colonia. Durante il giorno stava seduto al tavolo del salotto e riempiva tutta la casa di fumo di sigarette. Teneva gli occhi fissi in un punto del soffitto, sembrava che pensasse, ma in verità sonnecchiava a occhi aperti. Si era abituato a farlo lavorando come guardiano notturno. Anche la sua abitudine di fumare in continuazione gli veniva dalle lunghe notti di sorveglianza, quando doveva rimanere sveglio. Alla fine la sua veglia era una specie di sonno leggero a occhi aperti e il suo sonno era una specie di veglia a occhi chiusi, alcune ore ogni mattina – non aveva bisogno d’altro.
Afferrò di nuovo Levanà e dopo gli schiaffi la picchiò sulle braccia e sul sedere. Levanà non aprì bocca e non pianse.
La nonna si era alzata improvvisamente dal letto nella veranda, si era alzata con un grande sforzo. Si era sentito il rumore delle molle del letto, come se le sue articolazioni si spaccassero. A tentoni trovò la strada fino al salone e si fermò sulla porta, appoggiandosi con entrambe le mani allo stipite. «Che è successo? Che è successo?» chiedeva in ladino senza smettere, con una voce bassa e molto flebile. «Ditemi che è successo!». Le vuote orbite degli occhi della vecchia nonna si aggiravano tra le pareti della stanza.
Il padre di Levanà guardò la nonna e si sentì a disagio. Smise di picchiare la figlia e rimase in piedi senza sapere che fare con le proprie mani. I suoi occhi si rivolsero ancora a Bella in cerca di consiglio, interrogandola, e lei sedeva in silenzio come se tutto questo non la riguardasse ma fosse lì solo ad aspettare. Alla fine aprì bocca e disse: «Non mi interessa! Io voglio il mio denaro. Altrimenti chiamerò la polizia».
Si vedeva bene che quest’annuncio non aveva fatto molto piacere al padre di Levanà. Si vedeva che avrebbe fatto di tutto purché Bella non mettesse in pratica le minacce. Stava per tornare da Levanà e riprendere le percosse. Forse aveva persino escogitato un sistema di percosse più efficace, che non avrebbe portato alla scoperta del denaro rubato (si immaginava che Levanà non avesse rubato alcun denaro) ma che avrebbe comunque tranquillizzato Bella; o, almeno, l’avrebbe parzialmente compensata della perdita. Quando fu sul punto di sollevare la mano, si accorse di sua madre ed ecco che accadde una cosa straordinaria.
La nonna stava in piedi, appoggiandosi con entrambe le mani allo stipite della porta e piangeva. Piangeva senza emettere alcun suono e senza alcuna smorfia sul viso, ma dai suoi occhi scorrevano lacrime. Era da anni che non l’avevano vista fare una cosa simile. Quegli occhi ciechi avevano ottenuto per un attimo qualcosa di simile a un’espressione. Il suo collo ricoperto di rughe sopportava tutto lo sforzo del pianto, e si gonfiava e si contraeva alternativamente.
Che cos’era successo all’improvviso alla nonna? Piangeva forse per la sofferenza gratuita causata a Levane, o perché disperava di salvare la famiglia, o perché quanto accadeva era al di fuori della sua comprensione? Tutto ciò aveva forse risvegliato in lei l’attesa di una sciagura, un terrore per la sventura, una tremenda preoccupazione; forse il suo sesto senso le aveva rivelato quanto era successo tra Levanà e il fratello nel campo; o forse non si trattava affatto di pianto, di alcuna visione concreta, ma semplicemente di una manifestazione corporea che scaturiva da altre pressioni, da uno sforzo, dal disfacimento? Comunque sembrava il pianto amaro di una vecchia che alla fine dei suoi giorni era tornata bambina.
Il padre di Levanà si avvicinò alla madre, l’abbracciò, la sollevò tra le braccia e la portò sul suo letto nella veranda. La nonna agitava pesantemente in aria le mani annerite, come cercando di capire qualcosa ma non c’era chi glielo spiegasse.
Lui non diede più schiaffi a Levanà. Ora fissò due occhi penetranti su Bella la Nera, che ancora non era soddisfatta. Sembrava che le dicesse con gli occhi: ora basta, nient’altro.
Bella non li minacciò più di andare dalla polizia. Raddrizzò il mento e annunzio che mai e poi mai avrebbe avuto più a che fare con gente come loro, pronunciò sottovoce una litania di imprecazioni in una lingua incomprensibile e uscì sconfitta dalla casa della strada degli Spanioli.

IL COMMENTO di Yehoshua Kenaz
Il secondo libro, così ho sentito dire spesso, è il più difficile e problematico per uno scrittore. Dopo la pubblicazione del primo libro, egli se ne sta confuso di fronte al secondo tentativo. Così, a ogni modo, mi sono sentito anch’io, quando mi sono seduto e mi sono messo a scrivere un altro libro. Ma un’altra cosa sapevo per certo, che volevo scrivere su un gruppo di persone, tutti inquilini di un palazzo nella periferia nord di Tel Aviv. Questa è stata la base de “La grande donna dei sogni”.
Durante la stesura, compresi che qualcosa di strano stava accadendo ai personaggi del racconto: i loro sogni, le loro paure e le loro allucinazioni si confondevano, influenzandosi vicendevolmente. L’uomo preoccupato che sua moglie lo abbandoni fa sì che ella lo faccia realmente, la cieca che vede in un incubo che lui la ucciderà, fa sì che l’incubo si realizzi, e così via.
Apparentemente i personaggi del libro vivono le loro vite in parallelo e non sono coscienti del fatto che ciascuno di loro svolge un ruolo nelle fantasie di un altro. Ma la fantasia li circonda, svolge il ruolo della realtà, indirizza il loro comportamento.
Scrivere questo libro non è stata un’esperienza facile; a ciò si è accompagnata, infatti, e non una volta sola, la preoccupazione, che ho provato a mitigare e a raffinare con una buona dose di humour. Contrariamente alle mie aspettative, il libro è stato accolto bene sia dalla critica sia dal pubblico ed è rimasto vivo sinora, sebbene siano passati più di trent’anni. Ne è stata tratta poi una piéce teatrale, rappresentata a Gerusalemme.
Il desiderio di scrivere sugli inquilini di un condominio non è svanita in me ma di certo si è dissimulata, così sono apparsi altri libri basati sullo stesso principio: “Ripristinando antichi amori”, “Corto circuito”, “Paesaggio con tre alberi”.
Forse alla fine ho esaurito questa fantasia.
Il brano descrive un momento nei ricordi d’infanzia di Levana. Levana, che considera la sua vita un martirio senza fine, è uno dei personaggi principali del romanzo.
La storia si svolge per lo più nell’ultimo scorcio degli anni ’60, in una casa alla periferia di Tel Aviv. Qui, su quattro piani vivono un tassista, sua moglie, Levana, e i loro figli; un vecchio immigrato alla ricerca di calore umano; un’infantile coppia di mezza età; una donna cieca, sola, che diventa il demone della casa.
Le vite di queste persone, le loro paure e allucinazioni, quasi intrecciate l’una con l’altra, conducono all’inevitabile, violento finale.

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