Una nuova coalizione per salvare l’unione del Paese

Il nuovo governo potrebbe cadere da un momento all’altro, ma è già foriero di alcuni grandi cambiamenti destinati a durare più a lungo del governo stesso

Di Amotz Asa-El

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

“Non possiamo sottrarci alla storia” disse Abraham Lincoln mentre promulgava il Proclama di Emancipazione, al culmine della guerra civile americana. Anche i protagonisti del dramma di domenica scorsa alla Knesset non possono sottrarsi alla storia, anche se alcuni di loro sembravano determinati a farlo. La vergognosa, e chiaramente premeditata, imboscata a base di urla e improperi con cui una parte della nuova opposizione ha accolto il primo ministro entrante Naftali Bennett non ha fatto che confermare il messaggio principale del nuovo governo, che in effetti è proprio ciò che Lincoln affermava in quel suo discorso: “Sappiamo come salvare l’unione”.

L’unione israeliana, un delicato tessuto di etnie, fedi, tribù e idee, è ancora più complessa di quella che la nazione americana fece quasi a pezzi 160 anni fa. Gli otto partiti della nuova coalizione costituiscono uno spaccato di questa unione, una confederazione di antagonisti ideologici che hanno deciso di dimostrare di poter lavorare insieme. I rumorosi disturbatori che si sono trovati ad affrontare sono evidentemente allarmati proprio da questa prospettiva e dunque incarnano gli ultimi anni di Netanyahu, un triste periodo in cui la società israeliana è stata di fatto incoraggiata a dividersi e ripiegarsi su se stessa.

Il 36esimo governo israeliano (clicca per ingrandire)

Il bersaglio più evidente di questo impulso, gli arabi d’Israele, era stato collettivamente additato dallo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu durante le elezioni del 2015. I successivi martellanti attacchi alla “sinistra” e ai suoi presunti agenti in una immaginaria cospirazione fatta di giudici, giornalisti e poliziotti, hanno urtato milioni di persone attraverso tutte le molteplici suddivisioni dell’unione israeliana. È così che è nata la coalizione che si propone di salvare l’unione israeliana, ed è così che il corso della storia è diventato inevitabile.

Il corso della storia significa che questo governo durerà? Nient’affatto. La coalizione potrebbe spaccarsi in qualsiasi momento, vuoi per dinamiche personali che la metteranno alla prova dall’interno, vuoi a causa di eventi improvvisi che la scuoteranno dall’esterno. E tuttavia questo governo è già foriero di grandi cambiamenti destinati a durare più a lungo del governo stesso, qualche che sia la sua durata.

Il cambiamento più grande è sul piano sociale. La popolazione araba d’Israele si è finalmente messa a fare politica nello stato ebraico. La piattaforma del presidente di Ra’am, Mansour Abbas, che proponeva un’agenda al servizio della sua comunità e un tono pragmatico in netto contrasto con la retorica e la rigidità nazionalistica dei partiti arabi veterani, ha trovati i suoi partner ebrei, a cominciare da Netanyahu. E’ così che è stato infranto un tabù in entrambe le comunità. Il modello per cui ha optato Mansour Abbas, che lo vede diventare vice ministro anziché ministro, ricalca paradossalmente il modello scelto da decenni dai partiti politici haredi (ultra-ortodossi non sionisti). A giudicare da quel precedente, la mossa di Mansour Abbas potrebbe rivelarsi l’inizio di una proficua relazione.

Il secondo cambiamento riguarda l’idea di leadership. Da un giorno all’altro Israele passa da una serie di governi dominati da un uomo solo a un modello opposto, una libera confederazione di molti partiti in cui il primo ministro è, nella migliore delle ipotesi, un primus inter pares. Questo modello, se da un lato comporta il rischio di un deficit di autorità, dall’altro significa che Israele, dopo anni di auto-celebrazione, spavalderia e culto della personalità, può vedere all’opera uno spirito di umiltà personale e di lavoro di squadra trasversale che non si vedeva dai tempi di Shimon Peres e Yitzhak Shamir. Questo cambiamento di atmosfera potrebbe non essere tanto storico quanto il ripristino dell’unione israeliana o l’emancipazione politica degli arabi d’Israele, ma per la maggior parte degli israeliani era sospirato non da meno, ed anzi forse da più tempo.

(Jerusalem Post, 13.6.21)

 

La foto ufficiale del 36esimo governo israeliano con al centro il presidente Reuven Rivlin

Quanto è variegato il 36esimo governo israeliano? Sostenuto da partiti sionisti di sinistra, di centro e di destra e da un partito arabo islamista, il governo Bannett-Lapid conta 27 ministri fra cui 9 donne, una etiope, un arabo druso, un arabo musulmano, il primo leader di partito omosessuale dichiarato, una ministra in sedia a rotelle, e poi: ebrei russi, ebrei mediorientali, ministri laici e ministri religiosi (ma nessun ultra-ortodosso). Secondo molti osservatori (come Giovanni Quer, del Kantor Center dell’Università di Tel Aviv), il mosaico politico che compone il “governo del cambiamento” è forse quello che più rispecchia la società israeliana: un orientamento più di destra per quanto attiene difesa e questioni internazionali, un orientamento più di sinistra per quanto riguarda diritti civili e questioni sociali.
(Da: Ha’aretz, informazionecorretta.com, israele.net, 14.6.21)

Intervistato il giorno dell’insediamento del nuovo governo, il leader del partito arabo islamico Ra’am Mansour Abbas ha detto che è tempo che governo e opposizione promuovano “il dialogo tra ebrei e arabi in modo che ci comprendiamo e non ci vediamo come nemici”. “Apparteniamo a religioni e comunità diverse – ha detto Mansour Abbas – ma c’è qualcosa che unisce tutti gli israeliani, ed è la nostra cittadinanza”. Esortando a rafforzare il dialogo tra ebrei e arabi, il leader di Ra’am che ha fatto la scelta storica di sostenere dall’interno la coalizione di governo, ha espresso la speranza che “i legami tra le comunità ebraica e araba” si rafforzino.
(Da: Israel HaYom, 14.6.21)