Il bizzarro paradosso della destra israeliana pro-insediamenti

L’opposizione sogna un governo tutto di destra, ma per arrivarci non ha esitato a mettere seriamente a rischio lo status e il futuro degli israeliani che vivono in Cisgiordania

Di Tovah Lazaroff

Tovah Lazaroff, autrice di questo articolo

Come si suol dire, con amici come questi i coloni israeliani non hanno bisogno di nemici. I politici israeliani dell’opposizione di destra hanno fatto di tutto per far cadere il governo del primo ministro Naftali Bennett sostenendo che era un disastro per gli insediamenti in Cisgiordania. Ma nel farlo, hanno creato una situazione per cui ogni prevedibile scenario dell’immediato futuro sembra andare a detrimento degli israeliani che vivono in Giudea e Samaria (al di là della ex linea armistiziale del periodo 1949-67 ndr).

Dopo aver rischiato più volte la crisi per il fatto di non poter contare su una chiara maggioranza alla Knesset, il governo di larghissima coalizione è entrato in crisi acuta a causa della bocciatura alla Knesset del disegno di legge che avrebbe esteso di altri cinque anni la norma che garantisce pieni diritti di cittadinanza agli israeliani che vivono negli insediamenti in Cisgiordania. Finora questa legge era stata automaticamente rinnovata ogni cinque anni con così poco clamore che molti non sapevano nemmeno della sua esistenza. Se adesso invece dovesse decadere senza essere rinnovata, i cittadini israeliani che non vivono all’interno di Israele, ma neanche all’estero (perché vivono nel territorio di Cisgiordania a sovranità indefinita: secondo gli Accordi di Oslo fra Israele e Olp, sovranità e confini dovranno essere stabiliti con il negoziato sullo status definitivo ndr), si ritroverebbero completamente privi di tutta una serie di diritti comuni ai cittadini israeliani: dall’assistenza sanitaria alle pensioni, alla possibilità di ottenere patenti di guida e licenze matrimoniali, all’arruolamento nelle Forze di Difesa, sino addirittura al diritto di voto (la legge israeliana prevede il voto all’estero solo per il personale diplomatico ndr) e altro ancora. Insomma, il caos.

Foto di gruppi del 36esimo governo israeliano all’atto del suo insediamento, un anno fa

Gli esponenti dell’opposizione di destra affermavano che valeva la pena mettere a repentaglio lo status dei coloni pur di causare la caduta di questo governo. Per Bennett, invece, era un prezzo che non era disposto a pagare. Per questo ha deciso di mettere ai voti l’autoscioglimento della Knesset. Il rinvio del governo a nuove elezioni prima della fine di giugno congela automaticamente la scadenza della norma sulla giurisdizione dei coloni almeno fino alla creazione del nuovo governo. In effetti, lunedì Bennett ha dichiarato che il mantenimento di questa norma è così importante che preferisce far cadere il suo governo piuttosto che muoversi su una strada tanto rischiosa. Senza quella norma, ha detto, si creerebbero gravissimi problemi per la gestione della sicurezza e un “caos legislativo”. E ha aggiunto: “Non potevo permettere che ciò accadesse”.

Con la mossa di Bennett può darsi che venga preservato lo status nella vita quotidiana degli israeliani che vivono in Cisgiordania, ma è probabile che i progetti della destra in Giudea e Samaria subiscano comunque una seria battuta d’arresto. Vediamo perché.

Per quanto riguarda le politiche nei Territori (soprattutto nell’Area C sotto controllo israeliano in base agli Accordi di Oslo), la presenza alla guida del governo di un politico come Bennett, a capo di una formazione che si chiama “A destra” (Yamina), controbilanciava la presenza nella coalizione di forze di centro e di sinistra. Ma adesso che Bennett e il ministro degli esteri Yair Lapid hanno annunciato che intendono sciogliere la Knesset, Lapid subentrerà a Bennett nella carica di primo ministro fino alla formazione di un nuovo governo. Il ministro della difesa Benny Gantz rimarrà al suo posto, ma ora riceverà le direttive di marcia da Lapid, non più da Bennett. Tecnicamente è ancora possibile che il capo del partito Likud ed ex primo ministro Benjamin Netanyahu riesca a creare una nuova coalizione di destra prima dello scioglimento della Knesset, tornando così al timone ed evitando al paese di andare all’ennesima tornata elettorale. Ma è uno sviluppo che al momento appare remoto.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett (a sinistra) e il ministro degli esteri Yair Lapid durante la conferenza stampa di lunedì sera alla Knesset

Salvo questa eventualità “in zona Cesarini”, d’ora in avanti il governo dimissionario sarà guidato da Lapid, il cui approccio su Cisgiordania e conflitto israelo-palestinese non potrebbe essere più diverso da quello di Bennett. Bennett non è favorevole a uno stato palestinese (che reputa in ogni caso troppo pericoloso per lo stato ebraico) e ritiene che Israele debba mantenere il controllo su tutta l’Area C. Lapid, al contrario, sostiene la soluzione a due stati del conflitto con i palestinesi e ritiene che Israele dovrebbe mantenere per sé solo una piccola parte dell’Area C. Lo scorso febbraio, Lapid ha detto che non sosterrebbe alcuna attività di insediamento che possa danneggiare in futuro l’opzione a due stati: “Non costruiremo nulla che impedisca la possibilità di una futura soluzione a due stati”, ha affermato. Più nello specifico, Lapid ha parlato di limitare l’attività edilizia dei coloni alla loro naturale crescita demografica, si è pronunciato a favore della demolizione della controversa yeshiva di Homesh (un insediamento nel nord della Cisgiordania sgomberato nel 2005 in concomitanza con lo sgombero di quelli nella striscia di Gaza ndr) e contro l’intesa per la ratifica dell’avamposto su terreni contesi della collina di Evyatar. Lapid è tra coloro che sostengono i pochi, grandi blocchi di insediamenti (verosimilmente destinata a restare israeliani in base a un futuro accordo di pace definitivo ndr) ma si oppongono agli insediamenti isolati e agli avamposti abusivi.

Lapid rimarrà in carica per un breve periodo, probabilmente poco meno di sei mesi fino alla probabile data delle elezioni (fine ottobre/primi di novembre) e successivamente per il tempo necessario alla (non facile) formazione di un nuovo governo. Ma è un mezzo anno che si profila tutt’altro che irrilevante, a cominciare dalla visita a luglio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, durante la quale sono previste pressioni per il congelamento di tutte le attività unilaterali in Cisgiordania, comprese quelle in Area C. È più probabile che Lapid faccia delle concessioni a Biden di quanto non avrebbe fatto Bennett. Quando Netanyahu guidava governi dimissionari, durante le campagne elettorali adottava provvedimenti a favore degli insediamenti per guadagnare voti a destra. Lapid, durante il suo periodo da primo ministro, si giocherà la campagna elettorale con scelte centriste a favore della prospettiva dei due stati, perché quella è la posizione del suo elettorato. D’intesa col ministro della difesa Gantz (un altro centrista), potrebbe ad esempio rifiutarsi di convocare l’Alto Consiglio per la pianificazione in Giudea e Samaria che promuove la attività edilizie dei coloni, e per contro portare avanti progetti di edilizia per i palestinesi in Area C. I coloni che lamentavano il congelamento di fatto di gare d’appalto e piani edilizi potrebbero ora trovarsi davanti a un congelamento pianificato. Infine c’è la possibilità che le nuove elezioni non producano un nuovo governo, lasciando così Lapid ancora più a lungo alla guida del governo di transizione.

La destra che sogna un governo tutto di destra vede lo sviluppo di lunedì scorso come l’occasione per realizzare l’obiettivo. Se ci riuscirà, potrà dire che ne è valsa la pena. Ma per arrivarci, ha messo seriamente a rischio la sua  stessa agenda volta a rafforzare il controllo su tutta l’Area C, e ha portato al timone del governo un politico pronto a schierarsi contro gli insediamenti, se ciò serve a promuovere la prospettiva a due stati.

(Da: Jerusalem Post, 20.6.22)