Abu Mazen, l’eterno assente
Gli Stati Uniti hanno ripetutamente esortato il presidente palestinese a reimpegnarsi e difendere gli interessi del suo popolo. Non dovrebbe essere il suo compito principale?
Di David Horovitz
Cosa passava per la testa di Abu Mazen, mi domando, mentre guardava l’emozionante cerimonia di pace e normalizzazione, martedì alla Casa Bianca, trasmessa in diretta sulla tv palestinese?
Stava forse pensando “avrei potuto essere io, lassù sul palco, a fare la pace con Israele, se solo avessi risposto alla straordinaria e precipitosa offerta fatta nel 2008 del primo ministro israeliano Ehud Olmert”? O forse stava pensando “avrei potuto essere io, lassù, se avessi approfittato appieno del congelamento degli insediamenti imposto dal presidente degli Stati Uniti per 10 mesi al più che riluttante Benjamin Netanyahu nel 2009-10, anziché sprecare tutti quei mesi rifiutandomi negoziare”?
Abu Mazen dichiara sempre con sicumera di non voler passare alla storia come il leader che ha svenduto la causa palestinese e che ha tradito gli interessi del suo popolo. Ma è esattamente questo che ha fatto, nei 16 anni trascorsi da quando ha preso il posto del deceduto Yasser Arafat, l’impostore che partecipò alla precedente cerimonia di pace sul prato della casa Bianca. A differenza di Arafat, Abu Mazen non ha direttamente organizzato il terrorismo. Ma lui e la sua classe dirigente hanno incessantemente istigato odio e violenza contro lo stato ebraico sbeffeggiandone la legittimità storica e facendosi primo portavoce di quelle che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel suo discorso di martedì ha giustamente bollato come le incessanti menzogne sulla “moschea Al-Aqsa sotto attacco”. Quelle menzogne “tramandate di generazione in generazione”, ha detto Trump, hanno alimentato “un circolo vizioso di terrore e violenza” nella regione e oltre. Così facendo, Abu Mazen ha scelto strategicamente, in modo altrettanto inequivocabile di Arafat, di non preparare in alcun modo il suo popolo ai compromessi necessari per forgiare una pace possibile con Israele.

Casa Bianca, 15 settembre. Da sinistra: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Usa Donald Trump, il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed Al-Nahyan
Mentre per lo più si rifiutava di negoziare e, quando lo faceva brevemente, continuava a mantenere posizioni insostenibili come la pretesa di un “diritto al ritorno” dentro Israele di milioni di palestinesi (mai stati profughi), la sua posizione non faceva che indebolirsi.
Da un lato, come ha detto a chiare lettere Jared Kushner la scorsa settimana, l’intraprendenza degli insediamenti israeliani si mangiava poco a poco “tutta la terra in Cisgiordania, ed è del tutto improbabile che gli israeliani che ora vivono in quel territorio se ne vadano”. Dall’altro, come efficacemente dimostrato dai notevoli eventi di martedì, porzioni crescenti del mondo arabo stanno gradualmente svincolando le proprie priorità nazionali da quelle degli intransigenti palestinesi.
Il rifiuto di Abu Mazen si sta rivelando disastroso non solo per il suo popolo, ma anche per quello israeliano. È perfettamente ragionevole rallegrarsi, da una parte, della calorosa buona volontà e dell’impegno per un futuro migliore e condiviso messi in mostra alla Casa Bianca, e allo stesso tempo, dall’altro, dolersi del fatto che la dirigenza del nostro vicino di casa sta scivolando sempre più nell’abbraccio delle forze più oscure della regione.

Palestinesi manifestano contro la normalizzazione dei rapporti fra paesi arabi e Israele. Suoi cartelli, la consueta mappa delle rivendicazioni palestinesi: Israele è cancellato dalla carta geografica
La sua posizione si va indebolendo e il tempo sta personalmente scadendo per Abu Mazen, che si avvicina agli 85 anni. Ma non è mai troppo tardi. Come fece Obama nel 2009, l’amministrazione americana e gli Emirati Arabi Uniti gli stanno offrendo un’altra opportunità, avendo imposto al riluttante Netanyahu un altro tipo di congelamento: l’applicazione della sovranità israeliana sul 30% della Cisgiordania assegnato a Israele secondo il piano Trump è stata sospesa a tempo indeterminato, o almeno fino al 2024 secondo fonti ben informate che hanno parlato nei giorni scorsi a Times of Israel.
Gli Stati Uniti hanno ripetutamente esortato Abu Mazen a reimpegnarsi e difendere gli interessi del suo popolo. Non dovrebbe essere il suo primo e prioritario compito? Di fronte alla pervicace assenza di Abu Mazen, ha detto Kushner nel suo briefing sorprendentemente schietto della scorsa settimana, “abbiamo disegnato quella che pensiamo sia una mappa realistica, abbiamo giocato con la palla là dove si trovava”.
Mi domando cosa stesse passando per la testa di Abu Mazen, martedì. Vuole davvero legare le sorti del suo popolo ai terroristi di Gaza (che hanno ritenuto opportuno lanciare razzi su Israele proprio durante, e dopo, la cerimonia di pace), a Hezbollah, a Teheran? O sta aspettando che Trump perda le elezioni nella speranza che un presidente Biden faccia… cosa esattamente? Ha uno straccio di strategia? E poi, la stava guardando la tv?
(Da: Time of Israel, 17.9.20)
Ha scritto giovedì il direttore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg: “Una battuta cattiva che ho sentito una volta in Arabia Saudita: qual è la differenza tra i leader dei paesi arabi del Golfo e i leader dello stato d’Israele? Che quelli dei paesi del Golfo disprezzano davvero i palestinesi. Ancora una volta – conclude Goldberg – i leader arabi segnalano ai palestinesi che si sono stancati di quello che considerano il loro ostinato rifiuto, e che vogliono poter essere partner di Israele nello sviluppo high-tech e nella lotta contro l’Iran”.