Aharon Appelfeld
Tra il rifugio e la casa
In occasione della pubblicazione del libro di Aharon Appelfeld, Storia di una vita, per i tipi di Giuntina, abbiamo deciso di tradurre in italiano un suo brano su Shay Agnon (1888-1970), lo scrittore che più ha segnato la latteratura israeliana del XX secolo. Su Agnon, che ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1966 insieme alla poetessa Nelly Sachs, vi è una vastissima letteratura critica, purtroppo poco nota in Italia. Con questo breve articolo si intende fornire un testo che da un lato ci fa conoscere l’Appelfeld saggista, e dall’altro può essere utile a chi si accosti alla lettura della complessa e vastissima opera di Agnon.
Questo articolo viene pubblicato grazie all’Istituto per la traduzione della lingua ebraica (The Institute for the Translation of Hebrew Literature), che qui ringraziamo. Resterà a dispozione dei nostri lettori per un mese.
Tra il rifugio e la casa
di Aharon Appelfeld
È diventato un luogo comune descrivere l’opera di Agnon come rappresentante la tensione tra il sacro e il profano, o, secondo come pongono la questione i critici, tra tradizione e secolarizzazione. In altre parole, una tensione tra i poli opposti che erano profondamente radicati nelle anime dello scrittore e dei suoi contemporanei. Questa interpretazione della sua opera fu proposta per la prima volta più di mezzo secolo fa e venne diffusa con entusiasmo da Baruch Kurzweil: un Agnon del mondo tradizionale dei padri, contrapposto a un Agnon laico, scettico, che combatte per creare un ponte che è impossibile costruire.
Questa interpretazione sembrava avere il suo fondamento negli scritti di Agnon. Era evidente in modo particolare in Tmol shilshom: Gerusalemme contrapposta a Giaffa; Sonia, la regina del mare e della vita d’ogni giorno contrapposta a Shifra, la cui vita si consuma in stanze soffocanti; gli scuri vicoli fanatici di Gerusalemme contrapposti al mare aperto e ai pionieri di Giaffa e ai coloni – mentre Yitzhak, il protagonista, sogna e combatte per trovare se stesso in questi due mondi. Sembra essere una opposizione forte, quasi simmetrica, tra sacro e profano.
Ma questa stessa simmetria è sospetta. È vero, nella natura la si può trovare, ma le cose sono diverse laddove si tratta dell’anima. Diciamolo subito: persino in Tmol shilshom, dove il modello sacro / profano appare in modo così vivido, si tratta di un’illusione. Gerusalemme è una città di poveri, di tradizionalisti fanatici, e per nulla affatto un posto di fede genuina. Eppure in quella città fossilizzata vive il pittore Blaukopf, un ebreo che non osserva la Torah ma che è pieno di una religiosità intensa. Nel frattempo, a Giaffa e negli insediamenti, dove si tende a costruire un nuovo mondo ebraico, le cose sono lontane dall’essere perfette. Da una parte vi sono dei ricchi benefattori pomposi e dall’altra attivisti impostori, e nel mezzo dei palloni gonfiati. Tuttavia il devoto Hasid Malkhov vive a Giaffa, un ebreo del vecchio mondo con qualcosa dell’innocenza dei pionieri intorno a sé. In altre parole, cose che sembrano sacre o profane non sono necessariamente tali.
A mio modo di vedere, c’è un altro modo di contrapporre Gerusalemme e Giaffa. Gerusalemme ha i suoi predicatori seducenti e Giaffa i suoi individui intriganti. A Gerusalemme c’è una devozione esteriore, e a Giaffa una falsa secolarità. Tuttavia esiste gente veramente religiosa a Giaffa come a Gerusalemme. Agnon non divise infatti la gente tra religiosa e laica, sostenne piuttosto che alcuni ebrei possedevano una spirituale qualità ebraica che mancava ad altri.
Agnon non era un autore che amava i contrasti aspri; amava invece le sfumature. Non contrapponeva l’una cosa all’altra. I suoi caratteri non vengono presentati per mezzo di monologhi e discussioni, ma attraverso l’osservazione del loro comportamento, seguita a volte da un commento. In questo si distingueva dagli scrittori della sua generazione. I critici si sono sforzati di farlo rientrare nelle correnti letterarie dei suoi contemporanei e di sottolineare le loro qualità comuni, ma è impossibile sfuggire l’evidenza: Agnon sta in disparte / è una corrente a parte. Non nuotò nella corrente della sua epoca, che era sorta con la Haskalah, l’Illuminismo ebraico, ed era continuata durante la “rinascita” della lingua ebraica nel XIX secolo, movimenti questi che avevano accentuato il contrasto, la tensione e l’ostilità tra religione e vita, tra ebraismo e umanità. I suoi contemporanei avevano sostenuto, chi a voce alta e chi a voce bassa, che il vecchio ebraismo era in un vicolo cieco ed era condannato all’estinzione. Anche Berdiczewski e Brenner erano legati all’ebraismo, ma accettarono il verdetto. Agnon no. Lui, che aveva scritto Oreach natan lalun, che era una litania sulla distruzione, che era stato testimone dei protratti spasimi di morte dello shtetl ebraico, non poteva accettare la fine dell’ebraismo. Per tutta la vita si sentì parte dell’ebraismo e lottò per restaurarlo nel luogo dove era nato: Gerusalemme.
In seguito alla grande distruzione Agnon si mise alla ricerca dell’ebraismo perduto. La sua opera è in effetti una prolungata raccolta di frammenti. Stranamente fu proprio Eretz Israel, la distanza fisica, che lo mise in grado di vedere il suo shtetl nativo non solo con affetto, ma anche in una nuova prospettiva. La Eretz Israel dei primi decenni del XX secolo rappresentava una protesta contro tutto ciò che la diaspora significava. E tuttavia proprio nel luogo che in quei giorni tentava così duramente di liberarsi del fardello del passato, egli riuscì a dare voce ai suoi antenati meglio di tutti i suoi predecessori.
Agnon era diverso dai suoi contemporanei quasi in ogni aspetto della sua scrittura: la lingua, le fonti ebraiche alle quali attingeva, la sintassi, il tono … La sua scrittura era non solo qualitativamente ma anche sostanzialmente diversa. È un fatto che può essere spiegato in una miriade di modi, ma io credo che resterà un mistero. La sua struttura mentale creò una poetica diversa. Forse possiamo applicare ancora (utilmente) la vecchia distinzione di Schiller tra i due tipi di scrittori, quello ingenuo e quello sentimentale. Lo scrittore sentimentale non può mai accettare la realtà come la vede, deve invece combattere per il perfetto e l’ideale. È un ribelle con un’idea, alla luce della quale egli vede le imperfezioni del mondo reale. La maggior parte degli autori che scrissero in ebraico dalla Haskalah in poi erano sentimentali, e la realtà ebraica era per loro fondamentalmente imperfetta. L’idea originale, la Haskalah, fu seguita dal Bund e dal comunismo, e più tradi dal sionismo. Questi rappresentarono una resistenza non solo alle condizioni sociali della diaspora, ma all’ebraismo stesso, ai suoi valori morali e religiosi.
Lo scrittore ingenuo (non nel senso di non sofisticato, ma piuttosto di una certa integrale innocenza) accetta la realtà come la trova, con tutto il suo fascino e la sua bruttezza, passato e presente, materiale e spirituale. Non dice mai: questa società è senza speranza e va cambiata, dalle radici ai rami. Dirà invece: questa società nella quale vivo, che è così piena di dolore e di sofferenza, merita di essere osservata attentamente, fin dalle sue origini. La vita, così com’è, merita di un po’ di pietà. Lo scrittore ingenuo non antepone un’idea alla realtà. Si preoccupa della realtà, con le sue infermità e deformità, e non perché è infatuato delle disgrazie. Sa che la sua società non ha accettato questi difetti di sua spontanea volontà, ma se li è visti imporre dalla realtà. Agnon può essere uno dei pochi scrittori della sua generazione, se non l’unico, per il quale vale la definizione di scrittore ingenuo. Gli altri erano caratterizzati dal loro conflitto con i padri, con la storia ebraica e soprattutto con la religione ebraica. Sebbene la maggior parte di coloro che scrivevano in ebraico non fossero sionisti, il loro messaggio equivaleva al pragmatico messaggio sionista: dobbiamo cambiare.
Agnon non sapeva che farsene di questo messaggio. Provava un amore non sentimentale per il mondo dei suoi padri, per la casa ebraica e la sinagoga, per il mondo ebraico attraverso le epoche. Qualsiasi cosa fosse stata creata nel mondo ebraico era incastonata in lui e nella sua opera. T. S. Eliot ha affermato che l’essenza di uno scrittore sta nella memoria collettiva tribale, che egli custodisce e rinnova. In quel senso, Agnon fu unico tra i nostri scrittori. Abbiamo pensatori e scrittori che erano affascinati dall’ebraismo, gente come Martin Buber e Gershom Scholem, ma questi non lo accettavano come un tutto. Scelsero degli aspetti che li attraevano. Agnon invece vedeva l’ebraismo come un’entità culturale indivisibile. Ogni tentativo di divisione metteva in pericolo la sua integrità. Le sue opere abbracciavano tutto: la Haskalah e il chassidismo, l’assimilazionismo e il sionismo. Fuse la modernità e l’esperienza ebraica, e questo è il motivo per cui il suo mondo non è davvero diviso in sacro e profano, ma in quello dei valori e quello della loro assenza, di ciò che è autentico e di ciò che è falso. È un artista del dopo-assimilazione alla ricerca di se stesso e ha tentato di costruire dei ponti sulla frattura apertosi tra le generazioni. A differenza dei suoi contemporanei, non provava un sentimento di inimicizia per le credenze tribali. Fu uno dei pochi che capì che il cuore dell’ebraismo è nella sua religione, che può assumere particolari caratteristiche, come infatti è successo, ma che rimane l’infrastruttura che sottolinea la vera esistenza della tribù.
Insieme a Rav Kook, Agnon vedeva l’emergente comunità ebraica in Israele non come il culmine, ma come l’inizio di una nuova vita ebraica. Era abbastanza libero dalla ortodossia moderna, dalla sua sicurezza di sé e le sue pretese. Aveva la libertà interiore di osservare chiaramente se stesso e i suoi padri, senza rancore e senza pietà. Naturalmente il suo mondo era diverso dal loro, ma questo non significa che fosse migliore. Scrisse in tono minore, senza scoppi di rabbia e geremiadi. L’azione è per lo più interna, ma non induca in errore: il quieto tono conservatore era di per se stesso la più grande rivoluzione. Mentre i suoi contemporanei andarono fuori alla ricerca di tesori, Agnon rimase a casa e comunicò con i suoi padri e i loro scritti. Fu questa sua abilità di restare fedele a se stesso, questa lealtà, che fecero di Agnon ciò che fu.
È stato comparato a Kafka, e questo è un grande sbaglio. Kafka si preoccupava dell’individuo, delle sue profondità interiori, della sua inconsolabile disperazione. Il protagonista di Agnon, anche nei momenti di amara disperazione, non è mai solo. La tribù o ciò che ne è rimasto avrà pietà di lui e lo accoglierà nel suo seno nell’ora più buia. Questo è ciò che è successo a Yizhak Kummer e all’ospite di Oreach natan lalun. Persino l’individuo che si è smarrito lontano dalla tribù può cercare il sentiero e cercare di riunirsi ad essa. Il sionismo ha cercato di fornire un rifugio e una punto di riferimento per l’ebreo perseguitato, e Agnon ha cercato di ottenere l’impossibile: riunire i frammenti dell’anima tribale e riportarli alla loro antica fonte. Era una missione impossibile.
Per tornare al punto di partenza, i critici e gli studiosi contemporanei ad Agnon, ad eccezione di Dov Sadan, lo videro secondo la propria immagine. Dal momento che erano sradicati, e preoccupati del loro sradicamento, videro in lui e nei suoi protagonisti dei riflessi di se stessi, e cioè di persone che oscillavano tra la realtà alla loro tradizione e il totale rigetto di questa. Agnon non aveva niente a che fare con questo. Era molto oltre questo conflitto. Era in pace con i suoi padri, non perché fosse debole, bisognoso di un rifugio e dimentico della frattura. Il ritorno ai padri era un ritorno a se stesso, e Gerusalemme chiudeva il ciclo delle peregrinazioni. Dopo anni per le strade, l’errante tornava a casa.
[Trad. di C. Rosenzweig]