Aharon Appelfeld

Respirando il silenzio, Su Aharon Appelfeld, Tutto ciò che ho amato, trad. di Ofra Bennet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze 2002

Respirando il silenzio.

Su Aharon Appelfeld, Tutto ciò che ho amato, trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze 2002.

«Amo la fiction, purché sia sostenuta da un’ossatura autobiografica. I documenti servono come punto di partenza, ma il resto deve restare completamente in mano alla dea della letteratura» Così ha affermato Imre Kertész, lo scrittore ungherese che ha vinto quest’anno il Premio Nobel per la letteratura, in una intervista con Dario Fertilio apparsa in questi giorni su Il Corriere della Sera.[1] Si tratta di un’osservazione che sembra davvero essere stata scritta appositamente per l’opera di Aharon Appelfeld e in particolare per il romanzo Tutto ciò che ho amato, comparso ora in traduzione italiana per i tipi di Giuntina. Appelfeld si è dedicato alla scrittura di questo testo mentre scriveva la sua autobiografia – Storia di una vita, trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze 2001 – e sin dalle prime pagine si ha l’impressione che molto di ciò che nel racconto autobiografico non poteva essere detto, sia espresso qui, in questo romanzo in cui la voce narrante è un bambino ebreo di Czernowitz, alla vigilia dello scoppio della II Guerra Mondiale. Vi si ritrovano il paziente stupore, la capacità di osservazione, il rispetto per il silenzio, che sono caratteristici dell’Appelfeld bambino che avevamo già incontrato in Storia di una vita. In un’atmosfera sospesa, l’autore descrive qui la vita degli ebrei assimilati in Europa Orientale come già era apparsa in Badenheim 1939, una vita che sembra procedere in un vicolo cieco in un momento storico in cui l’antisemitismo cancella in modo sorprendentemente facile le conquiste dell’emancipazione ebraica. Un tema ricorrente nel libro sembra infatti essere quello rappresentato da un atto d’accusa verso quegli ebrei che si sono allontanati dall’ebraismo, che «hanno dimenticato di essere figli di re» [p. 111], accusa mossa sempre, nel romanzo, da cattolici che affermano di preferire gli ebrei «del vecchio tipo» rispetto a quelli «nuovi», quelli senza Dio. Gli uni e gli altri però, senza distinzione alcuna, vengono odiati e perseguitati, per calcolo o per ingoranza, sempre più crudelmente nella Romania del periodo ante-guerra.

Il protagonista è un figlio unico, i cui genitori si sono separati e che percepisce con particolare sensibilità le loro sofferenze. La figura della madre è particolarmente toccante. L’amore che il figlio ha per lei è di una tale intensità, che non si riesce a non pensare che Appelfeld stesso, all’età di otto anni, ha perso la madre, assassinata dai nazisti sotto i suoi stessi occhi. Il padre è un personaggio tormentato, introverso e silenzioso, in lotta con se stesso, come braccato dal destino. Il suo lavoro di pittore sembra dare all’autore l’occasione di misurarsi anche con vere e proprie teorie estetiche, raccontate però sempre dalla voce narrante del bambino. Eccone due esempi: «Durante una serata tempestosa a fredda il babbo mi spiegò che, mentre un artista lavora, i demoni lo assalgono e bisogna ignorarli o picchiarli con forza. Quando ne parla esce dalla depressione e un sorriso gli riempie la bocca, come se prendesse atto che la vita è una sequenza di seccature, confusioni e cattiverie, e che non si può cambiare nulla; ma ciò nonostante vale la pena di osservare: osservare non cambia le cose, ma svaga l’occhio per un attimo» [pp. 139-140] e ancora: «Un pittore in carne e ossa non può competere con il Creatore. Il Creatore fa ciò che vuole, e noi facciamo quel che possiamo; i miei quadri insegnano la differenza» [p. 147]. Le riflessioni del padre sull’arte e il desiderio di ritrovare una qualche sorta di religiosità, non importa se ebraica o cristiana, sembrano fondersi durante la visita a un convento, dove il padre elogia «i mosaici e le antiche immagini» che vi si trovano e aggiunge: «È un’arte grandissima, verrà il giorno in cui gli allievi dell’accademia correranno qui per imparare da questi artisti ingenui quale realmente sia la volontà di Dio» [p. 194].

Della trama non racconteremo oltre. Rimane la sensazione fortissima che una parte di Appelfeld sia rimasta “laggiù”, in quello che restava dell’Impero Austro-Ungarico, e che gli anni passati dalla perdita della sua famiglia al suo arrivo in Israele nel dopo-guerra, siano stati di tale intensità, da restare il fattore d’ispirazione portante di gran parte della sua opera. La storia ha sottratto però ogni possibile dolcezza al ricordo: l’irruzione della violenza antisemita, la frattura insanabile nella vita dei singoli, l’irreparabile perdita del passato, rendono amara ogni nostalgia. Per salvare quella dolcezza, occore un’enorme energia. È in questo che la scrittura è stata d’aiuto ad Aharon Appelfeld.

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[1] La memoria del passato non può essere rimossa: è un trauma inevitabile, in «Il Corriere della Sera» di venerdì 11 ottobre 2002, p. 37.