Aharon Appelfeld

Intervista ad Aharon Appelfeld

Raccontare una vita.

Incontro con Aharon Appelfeld.

Aharon Appelfeld è stato in Italia per presentare un suo libro apparso in traduzione italiana, Storia di una vita, nella bella traduzione di Ofra e Raffaella Scardi, Giuntina editore. Si tratta di un libro molto interessante e diverso dai libri di memorie che appaiono così spesso in questa che è stata definita “l’era del testimone”. L’autore infatti non si lascia inserire nella categoria dei sopravvissuti allo sterminio nazista se non con difficoltà: prima di tutto si tratta di uno scrittore, autore di racconti, romanzi, poesie, opere teatrali e saggi letterari. La sua scrittura è molto consapevole ed è il punto di arrivo di un cammino faticoso alla ricerca di una lingua senza la quale, scrive, «un uomo è invalido». È proprio per questa attenzione al detto e al non-detto che mi è difficile intervistarlo. Per quanto sia stato professore di letteratura ebraica all’Università del Negev, e sia pertanto abituato a spiegarsi con chiarezza, si avvertono in lui ritrosia e delicatezza nel trattare le parole, una sorta di sofferta decisione a restare fedele ai propri silenzi.

C. R.: Vorrei chiederle qualche parola di introduzione a Storia di una vita.

A. A.: Questo libro è un libro di frammenti, ma la mia sensazione è che i frammenti abbiano una unità. È vero, ci sono dei capitoli della mia vita dei quali non posso parlare, perché non riesco ancora a trovare le parole, e tra questi capitoli c’è quello della morte di mia madre, della quale sono stato testimone. In campo di concentramento sono stato separato da mio padre. E mentre accadeva sapevo che quella separazione era per sempre. Anche di questo non riesco a scrivere. E poi sono stato un bambino perseguitato, cacciato e sono stato trattato come un cane pazzo. Un giorno forse scriverò anche di questo, ma ancora non ne sono capace.

Ho parlato della prostituta che per due mesi mi ha offerto un rifugio: lei è stata la mia scuola e un giorno scriverò su di lei un intero libro. Vorrei avere a disposizione ancora un centinaio d’anni per poterne scrivere. E dopo la prostituta, fu la volta dei criminali, dei ladri di cavalli. Durante la mia infanzia mi sono successe talmente tante cose che potrei scrivere una ventina di libri solo per raccontare tutto questo.

C. R.: In una delle sue conferenze lei ha detto che da bambino pensava che se la perseguitavano era perché era colpevole di qualcosa che non capiva.

A. A.: Sì, continuavo a chiedermi perché volessero uccidermi. Non riuscivo a capire. Pensavo che il motivo fossero le mie grandi orecchie, o forse emanavo un cattivo odore. Ero convinto che il motivo fosse qualcosa di fisico. Io naturalmente mi sentivo come tutti gli altri bambini, ma al tempo stesso mi rendevo conto che tutti mi davano la caccia, tutti – l’esercito, i contadini – volevano catturarmi. Questo è l’effetto dell’antisemitismo. Dal punto di vista psicologico uno dei delitti dell’antisemitismo è quello di portare l’ebreo a interiorizzare le accuse dei persecutori: se dicono che sono stupido, alla fine comincio a crederci, succede a tutti. Sono convinto che gli ebrei abbiano resistito a questo meccanismo perché la loro fede era molto forte, ma per gli ebrei assimilati era molto più difficile. Anche il sionismo ha interiorizzato ancuni elementi antisemiti, quando sosteneva che l’ebraismo diasporico aveva qualcosa di sbagliato e che gli ebrei dovevano diventare “normali”.

C. R.: Perché ha deciso di scrivere questo libro proprio ora?

A. A.: Questo libro è stato scritto durante quattro o cinque anni, non in un solo giorno. Ogni volta aggiungevo un’altra immagine. Volevo toccare il ricordo, perché la creazione letteraria lavora con l’immaginazione e anche con l’inconscio, ma quello che cercavo era riuscire ad esaminare cosa restava del ricordo. Ho fatto un viaggio nella memoria.

Dicono che io scrivo della Shoà e degli ebrei dell’Europa dell’Est, ma di fatto non ho portato con me molto quel mondo: ero un bambino. E tuttavia è quella piccolissima parte del mio ricordo quello che volevo far vedere in questo libro. Ho attraversato la Shoà senza esserne consapevole e pertanto la mia opera in generale non è basata sul ricordo, bensì sull’invenzione letteraria. Questo libro è l’unica cosa che rimane di quanto ricordo.

C. R.: Come è stato accolto questo libro in Israele?

Nella letteratura ebraica moderna il posto dedicato alla memoria è decisamente trascurabile. Non c’è spazio per la memoria storica, tutt’al più si tratta di Tel-Aviv e di Gerusalemme. Ciò cui aspiro è essere uno scrittore ebreo, perché gli ebrei dell’Europa dell’Est sono stati sterminati. In Israele sentivo che non c’era chi volesse continuare la tradizione ebraico-orientale. In Israele negli anni ’40 del XX secolo giunsero persone che volevano dimenticare tutto quel dolore, tutto quello che c’era “là” e costruire una nuova vita. Ciò che mi interessa è proprio unire l’Europa dell’Est, la tradizione ebraico-orientale, con quanto esiste oggi. Ho la sensazione di essere solo in questo percorso, perché la maggior parte dei bambini che giunsero insieme a me in Eretz Israel e i loro genitori volevano dimenticare e Israele era ideologicamente pronta a questo, a che dimenticassero e che si dedicassero a costruire una nuova vita, una vita priva di passato. Tutta la vita ebraica dell’Europa Orientale – una vita ricchissima dal punto di vista religioso, culturale, linguistico, è scomparsa, e prima che qualcosa di simile ricompaia nella storia ebraica passerà molto tempo. Oggi ci sono degli israeliani che tornano ad essere ebrei, non solo dal punto di vista religioso, ma anche culturale. Ma si tratta di un cammino ancora lungo, di un percorso lontano dall’essere completato. In Israele ci sono molte condizioni favorevoli allo sviluppo di una nuova vita ebraica: cinque milioni di ebrei in un solo luogo, la lingua ebraica – e per alcuni anche lo yiddish – e un vasto gruppo di ebrei religiosi. Tutti questi elementi potrebbero portare alla formazione di una società ebraica, ma per il momento questa non c ‘è ancora.

Per tornare alla sua domanda, in generale la mia opera non è stata accolta molto bene in Israele. È chiaro infatti che parlo in nome della cultura ebraica e in Israele c’era una forte opposizione a questa. Adesso la situazione è migliorata. Ho un pubblico di lettori relativamente grande. Ma all’inizio si diceva: Appelfeld ci riporta alla Diaspora, ci riporta alla Shoà, e altre critiche simili.

C. R.: E all’estero?

A. A.: Negli Stati Uniti la mia opera è molto diffusa, e anche in Germania e in Francia. In particolare gli ebrei degli Stati Uniti sono alla ricerca della loro identità e credo che per questo io sia uno di quegli scrittori che loro leggono.

C. R.: In Storia di una vita lei racconta anche di Sha”y Agnon, lo scrittore israeliano che ha preso il Premio Nobel nel 1967. Qual’è stata l’influenza di questo incontro sulla sua opera?

A. A.: Non scrivo come Agnon e non ho imparato direttamente da lui, ma è stato una figura importante per me. Quando sono arrivato in Israele nel 1946, questo era un paese eroico, rivoluzionario, e la rivoluzione sionista, come ogni rivoluzione, aveva qualcosa di duro e di difficile. Negli anni ’40 e ’50 c’era la tendenza a creare un nuovo ebreo, biondo, con gli occhi azzurri, forte, combattivo, un nuovo ebreo. Agnon mi ha dato la legittimazione a scrivere della mia vita come ebreo, come un ebreo cacciato, legato alla propria famiglia, e a delle fonti ebraiche.

C. R.: Lei crede quindi che uno scrittore ebreo per essere tale debba essere in contatto con la lingua e le fonti ebraiche.

A. A.: Le faccio un esempio. Primo Levi. Non è certo possibile dire che non sia uno scrittore ebreo, ma per spiegare la tragedia, non si rifa a Giobbe, bensì a Dante, alla mitologia cristiana. È Auschwitz che lo ha reso ebreo, ed è questa esperienza ebraica che lo costringe a riflettere sul suo ebraismo. Secondo me è molto difficile parlare della profondità ebraica senza conoscere le fonti e la lingua ebraiche. Anche Kafka ci ha lasciato molto sulla sua sete di ebraismo, specialmente nei suoi diari, e Proust è pieno di curiosità verso l’ebraismo, e lo stesso vale per Isaac Babel, e Saul Bellow. Ma per me è chiaro che quando un uomo parla o scrive nella sua lingua da dentro una tradizione ha un potenziale enorme.

C. R.: Per lei si è trattato di un lungo percorso.

A. A.: È vero. La mia prima lingua è stata il tedesco, la seconda l’ucraino, con i nonni parlavo in yiddish, nei dintorni si parlava rumeno, i vicini di casa erano polacchi e pertanto con loro si parlava in polacco, e gli intellettuali parlavano francese. Ma in Europa ho frequentato solo la prima elementare. Poi è arrivata la guerra, e con essa il ghetto, i campi di concentramento, la foresta. Quando sono arrivato in Eretz Israel avevo quattordici anni e non avevo una lingua. Ora sono molto felice che sia l’ebraico la mia lingua. Sono felice di essere legato alla lingua ebraica, perché essa mi riporta non solo alla Bibbia, ma anche a tutte le opere che attraverso i secoli sono state composte in lingua ebraica in Spagna, in Italia, in Germania. Attraverso l’ebraico e grazie all’ebraico, posso essere uno scrittore universale.

C. R.: Mi viene in mente una frase di Cocteau citata da Jodorowsky: un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico.

A. A.: Sì, è vero, ma è vero anche che a volte è proprio l’esilio che fa sì che il canto esca più limpido. A volte proprio scrivendo in un’altra lingua esce qualcosa di ebraico. Non sono un fanatico della lingua, ma delle fonti. In questi tempi non c’è un solo modello di ebreo, ce ne sono tanti ed è importante metterli insieme e dare loro espressione. In Italia ad esempio dal periodo tra le due guerre fino agli anni ’60 c’erano molti scrittori ebrei. C’è un ebraismo che nasce da un’esperienza ebraica. Negli ultimi cento anni ci sono l’ortodossia ebraica, il comunismo ebraico, il bundismo ebraico, il sionismo ebraico, il movimento yiddishista ebraico: tutto questo è ebraico. Inoltre l’ebreo è stato in diversi territori geografici. Più si ha di tutti questi elementi, di tutti questi territori, è più si è ebrei. O almeno così è per me. Il mio ebraismo ha tanti rami diversi, a volte in contraddizione; e più ci sono diversità e sfumature e più è interessante. Anche dal punto di vista artistico chi attraversa tutto questo è come se si nutrisse a varie fonti. Un buon esempio è lo yiddish, una lingua che contribuisce molto a fare di qualcuno uno scrittore ebreo. In parte per quersti motivi nella mia letteratura racconto dell’ebreo assimilato, un tipo particolare di ebreo moderno. Si tratta di una situazione psicologica ebraica molto particolare, che è difficile che gli israeliani capiscano. Questo è il modo in cui mi situo in questo quadro, su questa carta geografica che le ho delineato.

C. R.: Per tornare agli anni in Israele, come sono stati i suoi anni di insegnamento all’Univesità di Beer-Sheva?

A. A.: La mia vita è la scrittura. La scrittura è mattino, mezzogiorno e sera. Al tempo stesso è una continua osservazione. La letteratura, al contrario ad esempio della storia, non si occupa del passato, neppure quando è del passato che parla. La scrittura è sempre un presente bruciante. Tutti i lavori che ho fatto non hanno disturbato la mia scrittura. La scrittura richiede tutto te stesso. Sono come arruolato nella scrittura. Se mentre cammino sento una certa parola, mi dico: ecco, è di questa parola che ho bisogno, e così con le frasi, e le immagini.

C. R.: Quand’è che sente che un libro è finito?

A. A.: Un libro non è mai finito. Arrivo a un punto in cui sento che non posso più andare avanti, anche se ci sarebbe ancora molto da fare. Dopo che ho terminato un libro, lo lascio da parte per alcuni anni, e poi vi ritorno. Sento allora che è tutto più facile, perché dal punto di vista emotivo non c’è più un legame. In questa fase, posso cancellare senza problemi.

C. R.: Ci vuole raccotare qualcosa del libro che è in corso di traduzione sempre per Giuntina, Kol asher ahavti (Tutto ciò che ho amato)?

A. A.: Si tratta di un libro su una famiglia ebraica assimilata che si sta frantumando. Il padre è un pittore, la madre è una insegnate, e il figlio ha nove anni. I genitori si separano. Il bambino all’inizio resta con la madre, ma poi vive col padre. Questi è un anarchico bohémien, che non crede nell’educazione scolastica e decide che il figlio deve lasciare la scuola. Così il bambino non va a scuola, ma osserva e impara molto. Tutta la vicenda è raccontata dal punto di vista del bambino. Questo libro è stato pubblicato nel 1999 ed è uscito contemporaneamente a Storia di una vita. Entrambi i libri hanno qualcosa in comune, presentano degli elementi autobiografici.

C. R.: Le è stato chiesto se si scrive per se stessi o per gli altri, e lei ha risposto che la scrittura è una lunga lettera d’amore. Vorrebbe spiegare meglio questa affermazione?

A. A.: Dietro alla scrittura ci sono moltissime motivazioni: l’odio, la rabbia, i complessi, l’ideologia, la necessità di liberarsi di qualcosa di traumatico e anche quella di dare quanto di meglio c’è in noi. È questo quello che intendo quando parlo di una lunga lettera d’amore. E quando parlo di quanto di meglio c’è in noi, non mi riferisco a qualcosa di sentimentale, e neppure al desiderio di abbellire se stessi, bensì ai momenti nei quali si raggiunge il massimo dell’umano che c’è in noi.

C. R.: Lei crede nella scrittura.

A. A.: Non è solo questo. È la scrittura che mi ha reso ebreo. È la scrittura che mi ha restituito i genitori, i nonni, tutte le cose buone che lo sterminio mi ha sottratto. La scrittura letteraria è qualcosa di intimo, quasi un sostituto del sentimento religioso.

C. R.: Come per Kafka, il quale affermava che scrivere è un tipo di preghiera.

A. A.: Sì. In altre parole: abbiamo dimenticato come pregare, e allora scriviamo.

[A cura di C. Rosenzweig]