Aharon Appelfeld

Introduzione al libro "Storia di una vita"

In anteprima per il sito www.israele.net un brano del libro di Aharon Appelfeld, Storia di una vita, traduzione dall’ebraico di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze, ottobre 2001, pp. 187, L. 24.000 (Euro 12,39).
Per gentile concessione della casa editrice Giuntina

Introduzione
Queste pagine sono frammenti di memoria e riflessioni. La nostra memoria è fuggevole e selettiva, custodisce ciò che sceglie di custodire. Non intendo dire che essa custodisce solo il bello e il piacevole. La memoria, come anche il sogno, prende dal denso flusso degli eventi alcuni particolari, a volte fatti di poca importanza, li immagazzina e in un certo momento li riporta a galla. Come il sogno, anche la memoria cerca di attribuire agli eventi un qualche significato.

Fin dall’infanzia ho sentito che la memoria è il serbatoio vivo ed effervescente che mi anima. Ancora bambino stavo seduto e descrivevo a me stesso le vacanze estive nel villaggio, dai miei nonni. Restavo seduto per ore davanti alla finestra ed immaginavo il viaggio. Tutto ciò che ricordavo delle vacanze precedenti tornava davanti ai miei occhi in modo ancora più vivace.

Memoria ed immaginazione risiedono talvolta nello stesso luogo. In quei primi anni erano in gara fra di loro. La memoria sembrava essere reale, solida. L’immaginazione aveva le ali. La memoria attirava verso il conosciuto, l’immaginazione salpava verso l’ignoto. La memoria m’ispirava sempre un senso di piacere e tranquillità. L’immaginazione mi scuoteva e finiva per deprimermi.

Col tempo imparai che ci sono persone che vivono solo in virtù della forza dell’immaginazione. Lo zio Herbert era così. Mio zio ereditò una grande fortuna ma, dal momento che viveva nel mondo dell’immaginazione, sprecò tutto e andò in rovina. Quando lo conobbi a fondo era già un uomo povero che viveva grazie all’aiuto della sua famiglia, ma anche nella povertà non aveva smesso di fantasticare. Lo sguardo dei suoi occhi era fisso, lontano, parlava sempre del futuro, come se presente e passato non esistessero.

È stupefacente quanto siano chiare le prime, lontane, memorie d’infanzia, particolarmente quelle legate ai monti Carpazi e alle grandi pianure che si stendono ai loro piedi. Durante le ultime vacanze estive assorbimmo le montagne e le pianure con una specie di spaventosa nostalgia, come se i miei genitori avessero saputo che quelle sarebbero state le ultime vacanze e di lì in avanti la vita sarebbe stata un inferno.

Quando scoppiò la seconda guerra mondiale avevo sette anni. L’ordine del tempo si confuse, non ci furono più estate e inverno, non ci furono più lunghe visite dai nonni al villaggio. La nostra vita si compresse in una stanza angusta. Per qualche tempo vivemmo nel ghetto, al termine dell’autunno fummo cacciati. Per settimane ci trovammo per strada e alla fine nel campo di concentramento. Della fuga racconterò a suo tempo.

Durante la guerra non ero me stesso. Ero simile ad un minuscolo animale che ha una tana, o meglio alcune tane. Pensieri e sentimenti si restrinsero molto. In verità, a volte mi assaliva un doloroso stupore – perché, per quale ragione sono rimasto solo, mi chiedevo – ma questo stupore svaniva con i vapori della foresta, e l’animale che era in me tornava ad avvolgermi nella sua pelliccia.

Degli anni della guerra mi ricordo ben poco, come se non fossero stati sei lunghi anni. È vero, a volte emergono dalla folta nebbia un corpo oscuro, una mano annerita, una scarpa della quale non sono rimaste che pezze. Queste immagini, che a volte sono potenti come colpi di arma da fuoco, svaniscono ben presto, come rifiutassero di svelarsi, ed è di nuovo quella nera galleria chiamata guerra. Questo riguarda la coscienza razionale, ma le palme delle mani, le piante dei piedi, la schiena e le ginocchia ricordano più della memoria. Se sapessi attingere da esse sarei inondato da visioni. Qualche rara volta sono riuscito ad ascoltare il mio corpo ed ho descritto alcuni eventi, ma anch’essi sono solo frammenti di una massa oscura per sempre nascosta dentro di me.

Dopo la guerra trascorsi alcuni mesi sulle spiagge italiane, poi sulle spiagge jugoslave. Furono mesi di meraviglioso oblio. L’acqua, il sole e la sabbia ci massaggiavano fino a tarda sera, e di notte sedevamo attorno al falò, arrostendo pesci e bevendo caffè. A quei tempi vagavano sulle spiagge uomini modellati dalla guerra: suonatori, prestigiatori, cantanti d’opera, attori, profeti di catastrofi, contrabbandieri e ladri, e fra l’altro anche artisti-bambini di sei o sette anni che impresari corrotti avevano adottato e trascinavano da un posto all’altro. Ogni notte c’era uno spettacolo, a volte due. Fu allora che l’oblio costruì i suoi profondi sotterranei. Più tardi li trasportammo in Israele.

Quando giungemmo in Israele l’oblio si era già consolidato nella nostra anima. Da questo punto di vista Israele è stata il proseguimento dell’Italia. L’oblio vi trovò terreno fertile. Certo l’ideologia di quegli anni contribuì a tale consolidamento, ma l’ordine di dimenticare non veniva da fuori. A volte dai sotterranei fortificati si infiltravano visioni di guerra, che pretendevano il diritto di esistere. Ma non avevano la forza di indebolire le colonne dell’oblio e la volontà di vivere. Diceva allora la vita: “dimentica, assimilati”. I kibbutzim e le fattorie erano serre perfette per coltivare l’oblio.

Per molti anni fui immerso nel sonno dell’oblio. La mia vita scorreva in superficie. Mi ero abituato ai sotterranei stipati ed umidi. È vero, ho sempre temuto l’eruzione. Mi sembrava, non senza ragione, che le forze oscure che vi pullulavano si stessero rafforzando, e che un giorno, quando lo spazio fosse divenuto troppo stretto, sarebbero riemerse. Eruzioni di questo genere sono accadute a volte, ma altre forze opponevano resistenza e i sotterranei finirono per essere chiusi a chiave.

Lo sdoppiamento fra lì e qui, fra sotto e sopra, proseguì per alcuni anni. La storia di quella lotta è in queste pagine, e si estende vasta: da un lato la memoria e l’oblio, sensazione di caos e di impotenza, e dall’altro l’aspirazione ad una vita che abbia un significato. Questo libro non pone domande né offre risposte. Sono pagine che descrivono, per usare le parole di Kafka, una battaglia, e a questa battaglia partecipano tutte le parti dell’animo: il ricordo della casa, dei genitori, l’atmosfera pastorale dei monti Carpazi, i nonni e tante luci che si accesero allora nella mia anima. Poi la guerra, tutto ciò che ha distrutto e le cicatrici che ha lasciato. Da ultimo i lunghi anni in Israele: il lavoro della terra, la lingua, i tormenti giovanili, l’università e lo scrivere.

Questo libro non è un bilancio, ma un tentativo, se volete un tentativo disperato, di ricollegare le parti diverse della mia vita alla radice da cui sono germogliate. Il lettore non cerchi in queste pagine l’ordinata e precisa storia di una vita. Ci sono i luoghi di una vita, raccolti nella memoria, vivi e palpitanti. Molto si è perso e molto è stato consumato dall’oblio. Ciò che è rimasto a tratti sembra un nulla e, malgrado ciò, quando ho accostato le parti ho sentito che non solo gli anni le uniscono, ma anche un senso.