Amos Oz

La scatola nera, trad. di E. Loewenthal, Feltrinelli

Amos Oz, La scatola nera, trad. di E. Loewenthal, Feltrinelli.

«Come dopo un incidente aereo, ci siamo messi a decifrare, per corrispondenza, il contenuto della scatola nera.» Da qui prende il titolo questo romanzo di Amos Oz, apparso nel 1987, un romanzo epistolare, una storia d’amore, sembra, ma in realtà piuttosto un testo profondamente politico, come la maggior parte delle opere di questo autore.

La vicenda è ambientata infatti nel 1976, alla vigilia della famosa svolta (mahapakh), quella per antonomasia, la più significativa all’interno della storia politica dello Stato d’Israele. Il 17 maggio del 1977 si assiste infatti ad una storica sconfitta del Partito laburista che porta alla vittoria del Likud guidato da Menahem Begin. Cito dal libro di Fausto Coen, Israele: quarant’anni di storia (Marietti 1991, ma ne è recentemente apparsa un’edizione aggiornata): «Le ragioni di questa svolta, sono più d’una. Ha certamente pesato una maggiore presa di coscienza della popolazione «sefardita» che ha inteso ribellarsi alla egemonia politica, culturale, amministrativa dell’establishment ashkenazita. Ha nuociuto ai laburisti il crescere di una sfiducia qualunquista, che ha favorito le «maniere forti» e le «rivendicazioni nazionalistiche» della destra». Sembra che La scatola nera sia esattamente la versione romanzata di questo passaggio. Ilana, che si è risposata con un ebreo di origine sefardita e osservante (Michael Sommo), scrive al suo ex-marito (Alexander Gideon) per chiedergli di aiutarla e aiutare loro figlio, Boaz, un ragazzo problematico, insofferente, incapace di concentrarsi a scuola e di inserirsi nell’ordine costituito. In questo modo Ilana da inizio ad una corrispondenza che porta a ripercorrere tutte le tappe della loro vita passata, ad aprire, appunto, la scatola nera. Al tempo stesso, viene raccontata la trasformazione di Michael Sommo da modesto insegnante di francese in intraprendente protagonista di un nazionalismo religioso messianico che lo porta a investire nell’acquisto di terreni nei territori occupati durante la Guerra del ’67. La tentazione di vedere nei personaggi degli stereotipi e dei simboli è fortissima: Alexander Gideon, l’ebreo ashkenazita intellettuale laico, ormai scettico su tutto, privo di “fede”, viene contrapposto a Michael Sommo, il sefardita religioso, più spontaneo e brutale, caratterizzato da una “fede” appassionata. In mezzo è Ilana, lo Stato d’Israele, deluso e abbandonato da una élite ashkenazita che ha perso progettualità e coraggio e si è chiusa in una vita intellettuale distante dalla realtà. Boaz, il figlio, sembra l’unione di passato e futuro, un ragazzo primitivo in un certo senso, che tenta di liberarsi delle nevrosi dei genitori, che è restio alle ideologie, che, come il Boaz del Libro di Ruth nella Bibbia, è in contatto con la terra, la lavora e la ama al di fuori di ogni calcolo e speculazione, e ripara, costruisce, restaura, aggiusta. È nelle ultime pagine del romanzo che la storia personale e l’analisi politica trovano la loro sintesi e il loro culmine: in una lettera Alexander Gideon traccia il disegno di una società minacciata dal fondamentalismo religioso: «Per nove anni ho combattuto con Machiavelli, confutato Hobbes e Locke, disfatto Marx dalle cuciture, ansioso di dimostrare una volta per tutte che non sono né l’egotismo né l’annichilimento né la violenza insita nella nostra natura a trasformarci in una specie che si autodistrugge. Noi distruggiamo noi stessi (e ben presto cancelleremo definitivamente tutti i nostri simili) proprio in conseguenza delle “nobili aspirazioni” che abbiamo forgiato: a causa della malattia religiosa. A causa del bisogno impellente di essere “salvati”. Della follia di redenzione. Che cosa è in fondo la follia della redenzione? Solo una maschera della completa assenza di basilare propensione alla vita. Quella di cui è dotato qualunque gatto.» L’ultima voce che sentiamo è quella di Ilana, la donna contesa e che si dibatte per l’amore di entrambi gli uomini, che sogna, addolorata, di dormire con entrambi, di vedere l’ashkenazita e il sefardita finalmente rappacificati. «Quand’ero piccola, figlia di immigranti che lottava con i resti del suo ridicolo accento e delle sue abitudini straniere, mi lasciai incantare dalle vecchie canzoni dei pionieri […] Come se di lontano mi rammentassero un giuramento di fedeltà. Come se dicessero che c’è una terra, ma noi non l’abbiamo trovata. Qualche buffone calzato si è intrufolato facendoci detestare ciò che avevamo trovato. Distruggendo tutto ciò che c’era di prezioso e non tornerà più. Trascinandoci verso qualche miraggio finché non siamo sprofondati nella melma della palude e la tenebra è calata su di noi. Mi ricorderai nelle tue preghiere? Di’ per favore a nome mio che attendo pietà.» È con questa preghiera e il sogno di riappacificazione e di pietà che si conclude il romanzo.

A questo punto è necessario ricordare che Amos Oz è uno degli scrittori israeliani più impegnati nel movimento di Shalom akhshav (Pace adesso, nato nel 1978). Spesso nelle sue opere, sia quelle di carattere saggistico che in quelle letterarie, come anche nei suoi interventi nella stampa, il suo impegno politico si esprime in modo forte. La sua critica è a volte spietata, ma è anche il segno di una società, quella israeliana, profondamente democratica, aperta al dibattito più acceso, pronta a rimettersi continuamente in discussione, capace di assistere alla frantumazione delle ideologie più radicate e dei propri miti. Un libro come La scatola nera nel 1987 ha avuto certamente un impatto forte. Tradurlo oggi, nell’infuriare della II Intifada, può sembrare offrire l’occasione ad una facile strumentalizzazione. In realtà si tratta di una ulteriore prova del fatto che la società israeliana è, come tutte, con le sue peculiarità, complessa, piena di conflitti, di tensioni, di problemi, ma anche estremamente vitale, in continua trasformazione e con una voglia di normalità che ora sembra più che mai lontana.