Amos Oz

L'uomo che avrebbe voluto essere un libro, su Una storia di amore e di tenebra, trad di E. Loewenthal

image_171L’uomo che avrebbe voluto essere un libro.

Su Una storia di amore e di tenebra, di Amos Oz, trad. di E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 627.

Di Claudia Rosenzweig

È appassionante scoprire la storia della parte occidentale della città di Gerusalemme, la parte fuori dalle mura, esterna ai conflitti religiosi, alla storia antica, alle crociate, alle tensioni politiche che abitano la “Città Vecchia”. Da Rehavia, scriveva la poetessa sfuggita ai nazisti Else Lasker-Schüler, «con un po’ di coraggio, si può arrivare in un attimo sulla luna, e non sbagliare nemmeno di un millesimo di secondo!» [La Terra degli Ebrei, introd. di M. Gigliotti, trad. di M. Gigliotti e E. Pedotti, La Giuntina, Firenze 1993, p. 35]. Rehavia è il quartiere dove negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso si stabilirono la maggior parte degli intellettuali tedeschi, scienziati, professori universitari, politici, come ad esempio Gershom Scholem, Hugo Bergmann (storico della filosofia, traduttore di Kant in ebraico), Yeshayahu Leibowitz, Golda Meir e altri ancora. Nel mezzo, la “tenda” dove abitò Yitzhak Ben Tzvi, secondo presidente dello Stato d’Israele, oggi diventata un edificio incantevole e protetto da una fitta vegetazione, il ??? Talpiyot invece, il quartiere dove sorge la casa che l’editore Schocken fece costruire per Sha”y Agnon – in via Klausner-, è più lontana, e dal punto di vista architettonico ricorda tante zone residenziali di Francoforte e di Berlino. Per giungervi, si percorre via Betlekhem (Betlemme), costeggiata da ricche case arabe con ampi archi e mosaici dalle tonalità azzurre e verdi e attraversata dal vento del deserto che è possibile scorgere poco lontano. La casa di Buber è poco distante. L’atmosfera è improvvisamente più “orientale”, diversa da quella delle ville coi tetti di tegole rosse e i vetri smerigliati che, a poche centinaia di metri, formano la Moshavà Germanit, il quartiere tedesco.

Leggendo il bellissimo libro di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra (Gerusalemme 2002), ci si ritrova a percorrere queste strade e le storie delle persone che le abitarono, ci si ritrova, in un certo senso, in una autobiografia che diventa storia.

Molte delle recensioni apparse in occasione della pubblicazione della traduzione italiana di questo libro hanno riconosciuto il filo rosso della narrazione nel suicidio della madre dell’autore, Fania. Questo episodio traumatico viene per lo più considerato come una tragedia intima, personale, simile per tema a quella rappresentata nel romanzo di Amos Oz Mikhael shelì (trad. it. Mikhael mio, Bompiani) e in The Hours di Michael Cunningham (Le ore, anch’esso Bompiani). In questa nostra nota vorremmo invece soffermarci su un’altra possibilità di lettura, un altro filo conduttore della vicenda raccontata da Amos Oz, la trasformazione cioè del popolo ebraico in nazione (per riprendere il titolo di un bel libro sulla storia ebraica dell’Europa Orientale nel XIX secolo recentemente pubblicato da Israel Bartal, storico dell’Università Ebraica di Gerusalemme) e i conflitti che in questa trasformazione si sono venuti a formare. Questa del resto è forse la parte meno “universale” dell’autobiografia, più “ebraica” e quindi più particolare. I personaggi di questo racconto sono veri e poco noti al lettore italiano, ma dal momento che ritornano sia in altre opere narrative che in articoli e saggi di Amos Oz, probabilmente la loro importanza per l’autore stesso non è secondaria. A noi sembra che questo libro possa essere letto come un percorso tra esilio e esistenza nazionale, tra romanticismo e cinismo, tra rivoluzione e continuazione nella storia ebraica, tra costruzione di miti e loro distruzione, vissuti non come poli opposti e nemici – per quanto di fatto lo siano stati e lo siano tuttora – ma come se fossero parte di una dialettica inevitabile che accompagna l’identità ebraica fino al giorno d’oggi, senza risolversi. È un tema comune ad altri autori contemporanei, come Hayim Be’er (il suo bellissimo libro Havalim è in corso di traduzione per i tipi di Giuntina) e Yehoshua Kenaz (di lui in italiano si possono leggere Fra la notte e l’alba, pubblicato da Marsilio, e Ripristinando antichi amori, Mondadori), che fa dire a un suo personaggio «Il tuo corpo è rimasto ebraico. Ancora non sa che sei diventato israeliano».

Questo tema ci accoglie subito nelle prime pagine del libro, in un passo che ricorre spesso nei libri di Amos Oz, ad esempio nel brano autobiografico Me-eyfo ani ba (Da dove vengo), in Be-’or tkhelet he‘aza (Sotto la potente luce blu, Keter, Jerusalem, 1979, pp. 195-219 e in particolare pp. 201 segg.), che compare quasi con le stesse parole in Una storia di amore e di tenebra: «I libri riempivano tutta casa nostra: mio padre era in grado di leggere sedici o diciassette lingue e di parlarne undici (tutte con accento russo). Mia madre aveva dimestichezza con quattro o cinque, e ne leggeva sei, otto. Fra loro, conversavano in russo e in polacco, quando non volevano farsi capire da me […]. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse temevano che la conoscenza delle lingue esponesse anche me alle seduzioni della meravigliosa e letale Europa» [p. 8 della trad. it., leggermente cambiata]. Come contrasto a questi “intellettuali ebrei diasporici”, «da qualche parte, oltre le montagne, stava maturando una nuova razza di ebrei-eroi, di una specie abbronzata e robusta, taciturna e operosa» [p. 11].

Si tratta dello stesso conflitto che, visto da un’angolazione diversa, si manifesta nuovamente negli episodi narrati da Amos Oz sulla figura dello zio, Yosef Klauzner, famoso storico della letteratura ebraica e professore dell’Università Ebraica di Gerusalemme. In poche righe troviamo concentrati i temi cui abbiamo accennato prima. Ecco il passo in questione, del quale abbiamo cambiato la traduzione inserendo termini in corsivo che verranno spiegati in seguito: «Mio padre, sulle orme dell’esimio zio Yosef, preferiva il riccioluto Tchernichovsky al calvo Bialik, che considerava un poeta troppo ebraico (yahadutì), un po’ diasporico, “femmineo”, mentre in Tchernichovsky mio padre vedeva il poeta ebraico (‘ivrì) per eccellenza – cioè virile, un poco monello, un poco non-ebreo (goyì), sensibile e ardito, un poeta sensuale-dionisiaco, un “allegro ellenico”, come lo chiamava zio Yosef (ignorando completamente la sua tristezza ebraica di Tchernichovsky e quel’anelito così ebraico di ellenizzare un po’). In Bialik mio padre vedeva il poeta dell’infelicità ebraica, del mondo di ieri, dello shtetl, della miseria, dell’impotenza e della misericordia (a parte Il rotolo del fuoco, I morti del deserto, Nella città del massacro, poiché là, così diceva papà, là Bialik ruggisce proprio).

Come molti ebrei sionisti suoi contemporanei, mio padre era un po’ cananeo, sotto sotto: lo shtetl e tutto ciò che a esso apparteneva, e financo i rappresentanti dello shtetl nella nuova letteratura, Bialik e Agnon, lo imbarazzavano, se ne vergognava. La sua ambizione era che tutti noi rinascessimo daccapo, fieri, robusti, abbronzati, europei-ebrei (‘ivrì) e non più ebrei (yahadutì) dell’Europa Orientale. Durante la maggior parte della sua vita mio padre provò avversione per lo yiddish, che chiamava “gergo” (jargon). Bialik era secondo lui il poeta della povertà, di un’“agonia storica”, mentre Tchernichovsky annunziava l’alba del domani che si prospettava per noi, l’alba “di coloro che conquistano Canaan con la tempesta”» [cap. 7, pp. 52-53 della versione italiana]. Come abbiamo accennato, questo brano può ben rappresentare un riassunto di quanto è successo nella storia ebraica nel XX secolo, ed è forse utile offrire al lettore italiano qualche breve spiegazione dei riferimenti presenti. Saul Tchernichovsky (1875-1943) è considerato il poeta del risorgimento e del romanticismo ebraico, il poeta della presenza della terra, della fisicità, del ritorno a Canaan. Hayim Nahman Bialik (1873-1934) è il poeta di un rinascimento ebraico che non è mai frattura con la storia ebraica. Il suo ebraico è ricchissimo perché Bialik si è formato sui testi della Tradizione fin dall’infanzia. Di lui è apparsa recentemente in una bellissima traduzione italiana la raccolta La tromba e altri racconti (traduzione, introduzione e note di Antonio di Gesù, Giuntina, Firenze 2003).

Nel testo citato compare inoltre la dicotomia yehudì / ‘ivrì, molto difficile da rendere in italiano, ma che occorre spiegare. Yehudì, da cui la parola Jude, giudeo, etc., è il termine con il quale gli ebrei chiamano se stessi nella storia ebraica, e yahadut è l’ebraismo. Il termine italiano giudeo ha però una connotazione fortemente negativa. ‘Ivrì, da cui il termine italiano ebreo, è il termine che compare nel libro della Genesi riferito ad Abramo. Con il formarsi dell’ideologia sionista e il formarsi dello yishuv, gli insediamenti ebraici in Palestina prima della fondazione dello Stato, si crearono forti opposizioni: il sionismo in opposizione alla soluzione socialista nella Diaspora, la cultura ebraica “laica” in opposizione all’assimilazione (l’osservanza religiosa non era presa in considerazione), l’accento sefardita, “virile” e adatto ai pionieri, per il nuovo ebraico in opposizione all’ebraico ashkenazita, un popolo ‘yivrì in opposizione al distorto carattere dell’ebreo diasporico yehudì, il ritorno alla natura in opposizione alle mura del ghetto, il ritorno alla terra in opposizione alla vita intellettuale, il portare le armi in opposizione all’impotenza e all’essere indifeso dell’ebreo della diaspora, l’ammirazione per la gioventù in opposizione a quella dei padri, l’idealizzazione del sabra, il nuovo ebreo nato in Terra d’Israele, sano nel corpo e nello spirito. Questa ideologia portò, come vediamo bene in tutto il libro di Amos Oz, ad un odio talmente forte per la storia e la cultura ebraiche precedenti il sionismo, che un famoso studioso, Benjamin Harshav, ha parlato del rimanifestarsi dell’“odio di sé” ebraico, una forma di interiorizzazione da parte ebraica dell’odio antisemita. A questo punto crediamo che sia necessario tradurre il termine ebraico ‘ayyiarà con quello yiddish shtetl, ormai entrato nella lingua italiana, soprattutto per merito del noto libro di Claudio Magris Lontano da dove, ma anche, per citare un libro più recente, del volume di Eva Hoffman che si intitola appunto Shtetl. Viaggio nel mondo degli ebrei polacchi (Einaudi 2001). Lo shtetl in senso stretto è la cittadina dell’Europa Orientale abitata da una grande percentuale di ebrei, ma in senso lato questa parola è passata a rappresentare tutto il mondo della cosiddetta yidishkayt, con i suoi conflitti e la sua vitalità, e che naturalmente era l’epicentro della cultuea yiddish, che gli illuministi ebrei chiamavano jargon, gergo. Non è un caso che tra gli intellettuali della prima metà del secolo, in particolari tra scrittori e pittori, si fosse diffuso il movimento dei cananei, che si proponeva come scopo quello di ricercare in Terra d’Israele le radici pre-ebraiche e in questo modo negava duemila anni di storia ebraica nella diaspora. Quando Amos Oz dice di suo padre che era un po’ cananeo, si riferisce esattamente a questo distacco rivoluzionario dall’ebraismo oltre che dalla vita nella diaspora. In questo senso ben si comprende perché i fratelli Klausner amassero in Tchernichovsky poprio il fatto che sembrasse un goi, cioè non ebreo. È una naturale conseguenza che Sha”y Agnon, secondo questa chiave interpretativa, andrà accomunato a Bialik, all’ebreo diasporico, ancora troppo ebreo e troppo poco israeliano. Eppure sarà proprio di Agnon che la madre di Oz dirà «Quell’uomo capisce molto e vede molto» [p. 98]. È come se in realtà questa contrapposizione Klausner / Agnon fosse la stessa che esiste tra il padre e la madre dell’autore. Viene narrata di fatto la tragedia di una generazione che ha perso un mondo, quello dell’esilio, è vero, ma non concepito solo in termini negativi se non a prezzo di una falsificazione storica. Quel mondo non può più esistere neanche nella nostalgia, perché è stato distrutto e ha lasciato dietro di sé un trauma inguaribile. E viene raccontata anche un’altra tragedia, che la Israele di oggi tende a dimenticare, e cioè quella degli intellettuali ebrei europei che giunti in Israele erano costretti a lavori umili, a una vita di stenti, e che tuttavia accettarono grandi sacrifici in vista della costruzione dello Stato Ebraico.

Il libro di Amos Oz meriterebbe, più che una recensione, un libro di note e osservazioni, tale è il potere evocativo che possiede. Memorabili sono le pagine dedicate ad Agnon, o quelle sulla poetessa Zelda, ma anche quelle sul rapporto con gli arabi, e i ricordi personali, molti dei quali sono ripresi da altre sue opere sia di narrativa (Soumchi, Una pantera in cantina, Mikhael mio, Il monte del cattivo consiglio) sia di carattere saggistico (Sotto la potente luce blu, Tutte le speranze), che speriamo presto di poter vedere tradotte in italiano. Il tutto viene costruito in una trama coerente, dove le ripetizioni fanno parte di una scelta ironica, priva di sentimentalismo. Questo libro è una summa dell’opera di una vita di Amos Oz, che si conferma uno degli scrittori israeliani più interessanti, e che tra impegno politico e racconto del privato ci ha offerto una narrazione che si potrebbe definire epica di una parte importante della storia ebraica nello Stato d’Israele.

Un’ultima nota è necessaria. Non condividiamo la scelta operata nella traduzione di neutralizzare o eliminare gli elementi ebraici. L’esempio già citato è quello di “borgo ebraico” al quale noi preferiamo shtetl, ma anche di “Pasqua” per Pesakh oppure “Pasqua ebraica”, “papalina” per kippà o “zucchetto”. Numerose sono le imprecisioni nelle trascrizioni di nomi e termini yiddish, come bortsh per borsht, fino ad arrivare a Katmon per Katamon, noto quartiere di Gerusalemme, a Dov Sedan per Dov Sadan, allo sconosciuto Deghigan [p. 460] al posto del celebre attore del teatro yiddish che ha ancora oggi molti ammiratori affezionati Dzhigan, e al parashtendiker kind che probabilmente sarebbe più comprensibile se fosse farshtendiker kind [ad es. a p. 417]. I casi citati sono una piccola parte di quelli che abbiamo riscontrato. È chiaro che gli errori sono un fatto naturale in ogni traduzione, si tratta tuttavia di un elemento che rende spiacevole la lettura di un romanzo scritto con tanta passione. Siamo dell’opinione che sia preferibile lasciare il più possibile le caratteristiche ebraiche di un libro, aggiungendo eventualmente un glossario alla fine del libro, proprio perché il messaggio dell’autore possa essere trasmesso rispettando la potenza della sua espressività, anche a costo di scontentare qualche lettore.