Anche in campagna elettorale, meglio guardare in faccia la realtà

Durante il mio primo anno come parlamentare venni invitato a incontrare leader palestinesi "moderati". Ho imparato molto da quegli incontri

Di Dov Lipman

Dov Lipman, autore di questo articolo

Le campagne elettorali sono tradizionalmente piene di promesse, giacché i partiti promettono agli elettori molte cose che successivamente vengono lasciate da parte per decidere cosa sia effettivamente vero o perlomeno realistico. Ebbene, c’è una promessa avanzata da alcuni partiti che posso serenamente definire irrealistica.

Durante il mio primo anno come parlamentare alla Knesset venni invitato a incontrare esponenti palestinesi “moderati”. Non si trattava di veri e propri negoziati di pace, quanto piuttosto di un convegno tenuto per alcuni giorni lontano da Israele, in un ambiente rilassato e confortevole per dare ai nuovi membri della Knesset e ai ministri palestinesi la possibilità di conoscersi e parlare in modo aperto e spontaneo.

Ho imparato molto da questi incontri e, dopo aver appreso delle condizioni di vita che i loro leader non cercano minimamente di cambiare, ho provato pena per gli innocenti palestinesi che soffrono per la carenza dei servizi più basilari e che non vedono speranze in una vita migliore.

Ma la lezione più importante che ho appreso mi arrivò l’ultimo giorno, quando avvicinai l’uomo che veniva spesso indicato come “il più moderato” dei leader palestinesi, e gli chiesi di dirmi, per favore, come stanno le cose in conclusione. Vale a dire: cosa ci vorrebbe perché i palestinesi accettassero finalmente un accordo definitivo con Israele?

Prima mi fece promettere che non lo avrei citato mai per nome, cosa che accettai. Quindi rispose: “Esigiamo che Israele si ritiri completamente sulle linee del 1967: che non resti a Israele nessun blocco di insediamenti, e naturalmente che Gerusalemme venga divisa. Esigiamo il diritto al ritorno come minimo per 100mila palestinesi. Ed esigiamo che tutti i prigionieri palestinesi vengano liberati dalle carceri israeliane”.

Itamar, marzo 2011. L’interno dell’abitazione dove i terroristi palestinesi Amjad Awad e Hakim Awad massacrarono con armi bianche e armi da fuoco la famiglia Fogel: il padre Ehud (Udi), la madre Ruth e tre dei loro figli (Yoav, 11 anni, Elad 4, e Hadas neonato di tre mesi.

Ero sbigottito. Faccio notare che in tutti i negoziati con i palestinesi è sempre stato scontato che i principali blocchi di insediamenti come Gush Etzion, Ma’aleh Adumim e Ariel sono destinati a rimanere in Israele, mentre ai palestinesi verrebbero cedute porzioni di territorio israeliano per compensare quelle aree “perse”. E che non è mai stato nemmeno in discussione un cosiddetto “diritto al ritorno” per addirittura 100mila palestinesi. Ma decisi di concentrarmi sulla sua ultima “condizione”, il rilascio di tutti i detenuti palestinesi dalle carceri israeliane.

Gli chiesi se intendesse includere anche gli assassini della famiglia Fogel, quelli che sono entrati nell’insediamento di Itamar un venerdì sera, hanno fatto irruzione nell’abitazione di una famiglia e hanno massacrato i genitori e i bambini che dormivano nei lettini. “Certo”, mi rispose.

Gli chiesi se si rendesse conto che nemmeno il Meretz, il partito ebraico più di sinistra alla Knesset, non sarebbe mai stato d’accordo con una condizione del genere. Gli feci anche notare che vi sono alcuni ebrei che hanno ucciso palestinesi innocenti e Israele li ha processati e incarcerati. E che non verrebbe mai in mente di chiederne la scarcerazione per arrivare a un accordo di pace con i palestinesi. Come poteva sostenere che gli spietati assassini della famiglia Fogel, e centinaia di altri terroristi che hanno trucidato israeliani innocenti, debbano essere scarcerati semplicemente perché esiste un accordo tra Israele e i palestinesi? “Perché sono combattenti per la libertà – è stata la risposta – e alla fine di un conflitto tutti i prigionieri di guerra devono essere restituiti”.

29.12.18: post su sulla pagina Facebook di Fatah. Nessuna soluzione “a due stati”: Israele è cancellato dalla carta geografica

Gli dissi che Israele non avrebbe mai potuto accettare, e a quel punto arrivarono le parole chiave: “Allora non ci sarà nessun accordo”. Ecco dunque il leader palestinese “più moderato” chiarire senza la minima incertezza che le rivendicazioni dei palestinesi significano che essi non accetteranno mai un accordo con Israele: tutti i loro appelli per il negoziato e per due stati uno a fianco dell’altro sono essenzialmente una farsa.

Recentemente mi sono imbattuto in un video in cui Golda Meir poneva l’ovvia domanda riguardante la richiesta di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. “Ci dicono: tornate ai confini del ‘67 e ci sarà la pace – spiegava Golda Meir – Ma noi eravamo già sui confini del ’67 nel maggio e nel giugno del 1967. E allora come mai ci fecero la guerra? E subito dopo la guerra, proponemmo: sediamoci e negoziamo la pace. Ma loro non lo fecero. La controversia con gli arabi non è per un pezzo di terra. Non è per il territorio. Non è per qualcosa di concreto. Semplicemente si rifiutano di pensare che abbiamo diritto di esistere”. Parole che hanno trovato conferma nella mia conversazione con il leader “moderato” palestinese.

Avvicinandosi le elezioni in Israele, sento il bisogno di avvertire chi mi legge di diffidare dei partiti che accusano i leader israeliani, passati e presenti, di non fare abbastanza per risolvere il conflitto, lasciando intendere che loro invece porteranno Israele a un accordo con i palestinesi basato sulla ricetta “due stati”. Avranno anche le migliori intenzioni, ma per me è chiarissimo che questa soluzione non è al momento raggiungibile a causa della dirigenza palestinese, e che il tentativo di attuarla a tutti i costi potrà solo nuocere a Israele. E quelli che dicono che avvieranno ritiri unilaterali non fanno altro che il gioco dei palestinesi, pazienti ma intransigenti, che continueranno la loro battaglia anti-Israele a prescindere da disimpegni, ritiri o da qualunque altra azione con cui ci illudessimo di risolvere d’un tratto questo conflitto secolare.

È giunto il momento di pensare a nuove idee e nuove proposte su come gestire questo complesso conflitto, e allo stesso tempo prendere iniziative per migliorare concretamente la qualità della vita dei palestinesi che vivono nei Territori. E sarei ben lieto di prendere in considerazione qualunque nuova iniziative da parte di partiti che fossero abbastanza coraggiosi da riconoscere, come dato di partenza, le verità che mi vennero rivelate da quel “moderato” leader palestinese.

(Da: Jerusalem Post, 16.3,19)