Ancora su “Jenin, Jenin”, l’ignobile falso documentario che piace tanto ai propagandisti anti-israeliani

Il regista Mohammed Bakri può attestare che diffondere la calunnia del sangue contro gli ebrei non è più gratis come una volta: oggi comporta un prezzo

Di Amotz Asa-El

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

Una volta non costava nulla. I servizi segreti dello zar Nicola II non sono mai stati citato in giudizio per aver concepito la favola dei Protocolli dei Savi di Sion circa un complotto ebraico per conquistare il mondo. E Joseph Goebbels non è stato processato per aver ideato mostruosità cinematografiche come Suss l’ebreo, I Rothschild e L’ebreo errante che hanno insegnato a milioni di persone a temere, odiare e aggredire gli ebrei. Questo è il motivo per cui il regista Mohammed Bakri, il cui pseudo-documentario Jenin, Jenin è una variazione su quei temi antisemiti, pensava di poter anche lui diffamare gli ebrei impunemente. Ma questo mese, dopo una saga di 19 anni in tribunale, quell’assunto è crollato grazie a quella che si profila come una pietra miliare nella lotta del popolo ebraico contro il suo nemico più antico, letale e subdolo: la calunnia del sangue.

Uscito nel 2002 e incentrato sulla battaglia di quell’anno contro gli attentatori suicidi che si annidavano tra gli abitanti di Jenin, il presunto documentario è caratterizzato da un livello di travisamento della realtà da lasciare senza fiato. I documentari generalmente rientrano in due categorie legittime: quelli che cercano di essere obiettivi e quelli che non ci provano nemmeno. Serie sulla natura come The Undersea World di Jacques Cousteau o The World About Us di David Attenborough non attaccavano nessuno. Per contro, Capitalism: A Love Story di Michael Moore è una tirata contro l’élite danarosa americana accusata d’aver tradito la classe lavoratrice, e suggerisce anche che il capitalismo sia in contraddizione con il cristianesimo. Il tipo di documentario di Moore, in altre parole, non voleva intrattenere ma infastidire, un obiettivo che ha chiaramente raggiunto. Tuttavia, era ancora un documentario perché non inventava i fatti. Quando mostrava uno stabilimento automobilistico abbandonato nel Michigan e lamentava il destino dei suoi dipendenti, mostrava un impianto industriale che era davvero esistito, e migliaia di persone che una volta ci lavoravano avevano davvero perso i mezzi di sussistenza.

Una delle innumerevoli proiezioni del falso documentario di Bakri organizzate in Italia, in questo caso a Torino nell’ottobre 2018

Non è quello che ha fatto Bakri. Nel suo film, un campo di battaglia in cui le Nazioni Unite hanno contato 52 vittime palestinesi diventa un massacro tipo Gettysburg disseminato di “migliaia” di palestinesi morti. Menzionando bombardamenti aerei in una battaglia in cui non c’era nessun aereo, il film racconta di una fossa comune che le truppe israeliane avrebbero scavato per le loro “vittime”: una sepoltura che Bakri non ha nemmeno cercato, men che meno trovato, esattamente come il suo film non si è preso la briga di mostrare l’ala dell’ospedale che sosteneva fosse stata distrutta dalle Forze di Difesa israeliane, per il semplice fatto che quell’ala d’ospedale, come la fossa comune, non è mai esistita.

Ancora più mirabolante l’”intervistato” che afferma d’aver salvato la vita a un bambino perforato da un proiettile che, dice, gli era entrato dal petto e uscito dalla schiena. L’uomo dichiara d’aver salvato il bambino usando un dito per aprirgli le vie aeree in gola. Ma i soldati israeliani, aggiunge il “testimone” conformandosi al classico schema della calunnia del sangue sugli ebrei che scannano bambini, hanno impedito il trasporto del bambino in ospedale provocandone la morte. “Chi era quel bambino, qual è il suo nome? – ha chiesto il dottor David Zangen, primo ufficiale medico nella battaglia, quando abbiamo parlato di quegli eventi nel suo studio del centro medico universitario Hadassah, dove cura bambini diabetici – Nessuno di noi sul campo si è imbattuto in un bambino con una tale ferita, e il motivo è che non c’è mai stato un bambino del genere e che nessun bambino potrebbe sopravvivere al passaggio di un proiettile attraverso il torace, né si possono aprire con un dito le vie aeree bloccate di un bambino”.

Quando la calunnia del sangue era impunita: San Simonino da Trento, ufficialmente venerato dal XV secolo fino al 1965 come vittima di “omicidio rituale ebraico”

Abbandonandosi all’immaginazione dei passanti, il regista non ha nemmeno fatto finta di indagare sui fatti evitando accuratamente di intervistare anche un solo funzionario, giornalista, ricercatore, generale, capitano o soldato semplice israeliano. “Non c’è stato alcun massacro a Jenin”, ha affermato la Corte Suprema (sentenza 316/03 del 20 marzo 2003). I 52 palestinesi morti nella battaglia (nella quale morirono anche 23 soldati israeliani) erano quasi tutti combattenti, ha scritto la giudice Ayala Procaccia. L’ospedale menzionato nel film conteneva terroristi e i soldati “fecero attenzione ad attenersi alle disposizioni di non danneggiare l’ospedale, di non entrarvi e di non sparare nella sua direzione”. Al contrario, le truppe “fornirono all’ospedale un generatore, acqua, elettricità e ossigeno” e “fecero sforzi speciali per assistere i feriti e i malati palestinesi, mettendoli in grado di ricevere assistenza medica”. In tutto, “257 feriti e malati vennero evacuati in un ospedale di Jenin e altri 60 negli ospedali israeliani”.

La storia di un blindato per trasporto truppe israeliano che avrebbe schiacciato delle persone stese per terra si è rivelata “palesemente infondata”, così come le storie di bambini deliberatamente assassinati e la storia di un palestinese che sarebbe stato catturato, ammanettato e colpito da breve distanza con colpi d’arma da fuoco. E’ vero invece che i terroristi palestinesi “usarono bambini per disseminare esplosivi”. Il grado di confusione di Bakri fra bambini e adulti è tale che Munir Washihi, descritto nel film come “un bambino”, si è rivelato essere un combattente di Hamas di 19 anni.

Una delle operazioni più malevole di Bakri è stata quella di aggiungere il suono di uno sparo a un filmato in cui si vedeva un uomo che veniva portato via da una fila di palestinesi sdraiati a terra. “Questo ha creato l’errata impressione che lì qualcuno fosse stato giustiziato”, ha finito con l’ammettere lo stesso regista (Ha’aretz, 23 febbraio 2005). Purtroppo, alla sua ammissione di disonestà professionale non ha fatto seguito un minimo esame di coscienza o di introspezione morale. Forse un giorno arriverà anche a questo. Per adesso, comunque, un tribunale ha vietato la proiezione del film e ha multato il suo autore.

C’è voluto così tanto tempo per arrivare a questa sentenza perché i querelanti originari non avevano identificato per nome e cognome una persona specifica come vittima della diffamazione. Adesso l’hanno fatto. Smascherato e multato, Bakri ha così appreso che diffondere la calunnia del sangue contro gli ebrei non è più gratis come una volta. Oggi comporta un prezzo.

Chi scrive era solito considerare l’antisemitismo come un problema della Diaspora. La situazione è cambiata nel 2001 quando migliaia di persone marciarono alla conferenza internazionale di Durban, in Sud Africa, accusandoci di “perpetrare sistematicamente un genocidio” proprio negli stessi giorni in cui noi cercavamo di proteggere i nostri figli dagli attentatori stragisti suicidi. Capimmo allora che l’arma puntata per secoli contro i nostri progenitori era stata dissotterrata e ora veniva puntata contro di noi. Sì, l’arma, le sue munizioni e i cecchini sono più o meno gli stessi di quelli che dovettero affrontare i nostri progenitori: è solo cambiato di poco il bersaglio. Ma gli israeliani non si lasceranno calunniare impunemente. Come Mohammed Bakri può ora attestare, gli israeliani non sono l’ebreo errante del dottor Goebbels. Gli israeliani combattono.

(Da: Jerusalem Post, 14.1.21)