Ancora una volta, i palestinesi non hanno perso l’occasione di rafforzare l’unità degli israeliani

Ci hanno pensato un terrorista e i suoi fan a ricordare a tutti il contesto criminale in cui i ragazzi israeliani sono chiamati a prendere decisioni di vita e di morte in poche frazioni di secondo

Di Gil Troy

Gil Troy, autore di questo articolo

L’intramontabile intuizione di Abba Eban secondo cui i palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione deve essere aggiornata: i palestinesi non perdono nemmeno mai l’occasione di rafforzare l’unità degli israeliani. Domenica scorsa, proprio mentre il New York Times si deliziava nel descrivere un Israele polarizzato e lacerato pronto a sacrificare esercito e unità nazionale “sull’altare dell’ideologia ultra-nazionalista”, ecco che un camionista palestinese sadico, insieme ai suoi numerosi tifosi palestinesi (dai fan esaltati che lo glorificano a quelli furbi che tacciono), ha riunificato Israele nel dolore. Nel mezzo delle lancinanti reazioni al verdetto Azaria che condanna il soldato che ha sparato a un terrorista disarmato, ci ha pensato quest’altro terrorista-pirata-della-strada a ricordare a tutti il contesto criminale in cui i ragazzi israeliani sono chiamati a prendere decisioni di vita e di morte in poche frazioni di secondo.

Mentre gli israeliani si attaccavo ai cellulari per sapere chi era sfuggito, questa volta, alla lotteria mortale del terrorismo – quella che un ineffabile editorialista di Ha’aretz quella stessa mattina giustificava come “resistenza all’occupazione” –, mentre la ruota della sfortuna di marca palestinese schiantava una ventina di famiglie prese a caso, gli israeliani non stavano affatto “muovendo guerra” al loro “esercito di cittadini”: eravamo una cosa sola nel lutto e nella determinazione.

Siamo una cosa sola con le famiglie dei quattro giovani trucidati. Siamo una cosa sola con i diciassette feriti e le loro famiglie. Siamo uniti da destra a sinistra nel ripudio di Hamas, che esalta questo assassino. Siamo uniti da destra a sinistra nel denunciare quegli abitanti di Gaza che hanno marciato nelle strade per celebrare questo atto spregevole. Siamo uniti nel condannare quei fiancheggiatori stranieri che trovano sempre il modo di giustificare l’istigazione all’odio dei palestinesi: le loro impronte digitali sono ben visibili sul volante del camionista killer. E noi tutti condividiamo la stessa preghiera, qualunque sia la ricetta politica che riteniamo più adatta per porre fine al conflitto: che queste siano le ultime vittime innocenti del terrorismo cieco. Anche se non possiamo non chiederci con sgomento: “a chi toccherà la prossima volta”?

I funerali di Yael Yekutiel, uccisa nell’attentato di domenica scorsa a Gerusalemme

Certo, sui mass-media non sono mancati alcuni commenti impietosi. Un opinionista ha sogghignato osservando che nel filmato si vedono due giovani allieve ufficiali che scappavano dal camion assassino tenendosi per mano: “pensavano di essere a Disneyland”, ha scritto. Wow, che acuto psicologo. Si consideri piuttosto la folle pressione che devono reggere questi ragazzi israeliani in divisa. Se reagiscono in modo eccessivo, come ha fatto Elor Azaria, vengono arrestati, processati e condannati. Se reagiscono del tutto normalmente cercando di mettersi al riparo, come hanno fatto alcuni cadetti durante l’attentato di domenica, vengono derisi. E’ giusto rendere omaggio ai coraggiosi che sono corsi verso il camion e hanno ucciso il terrorista; è ingiusto prendersela con gli altri. Stanno già soffrendo abbastanza per il trauma. Non lo si dimentichi: in un primo momento sembrava un incidente stradale, anche agli occhi di quelli che poi hanno reagito e sparato. L’intero incidente è durato 28 secondi: il che indica una reazione eccezionalmente rapida, che ha sicuramente salvato la vita di molti giovani (specie tenendo conto della volontà omicida del terrorista che ha invertito il senso di marcia, e del ben diverso bilancio di vittime in altri recenti casi analoghi). Soprattutto, non lo si dimentichi: i colpevoli di tutto questo sono innanzitutto i terroristi, non le loro vittime.

Quando avevo l’età di questi ragazzi i miei grandi dilemmi erano se specializzarmi in storia o in scienze politiche, se ordinare una pizza normale o ai funghi. Come potrei giudicarli senza un minimo di umiltà? Come osano farlo i miei colleghi guerrieri-da-tastiera che non si sono mai trovati davanti o dietro a un’arma? Il lutto collettivo d’Israele davanti a questa falcidia di giovani dimostra ancora una volta che le Forze di Difesa israeliane sono un esercito di popolo, formato dai “nostri ragazzi” che mettono in gioco cuore e anima, talvolta anche il corpo o la vita stessa, per proteggerci. Trattarli come bambini è paternalistico, trattarli come esperti veterani è pretendere troppo.

La manifestazione di sabato sera in Piazza Rabin a Tel Aviv per la solidarietà reciproca in Israele

Aspettiamo con serenità la definitiva sentenza Azaria, e intanto eliminiamo dalle discussioni sul suo caso due parole incendiarie: “eroe” e “assassino”. Assassinio è chi uccide un essere umano per motivi abbietti e in modo efferato. Lo scorso marzo, nel mezzo di un’ondata di aggressioni terroristiche che sembrava senza fine, non è che Elor Azaria sia uscito di casa una mattina con l’intenzione di uccidere un palestinese. Azaria era armato solo perché il suo paese gli ha dato un’arma per difenderlo. Questo non è il profilo di un assassino. Azaria non è una minaccia per la società. D’altra parte, un eroe è chi dà prova di coraggio, abnegazione e nobiltà di carattere. Sparare a un terrorista disarmato è sbagliato e immorale, e vìola il codice etico delle forze israeliane. Eroe è il mio amico Martin Friedlander, un medico che nel 2002 praticò la respirazione bocca a bocca a un terrorista che si era appena fatto saltare in aria. “Sono un medico – dice – e mi sono addestrato tutta la vita per questo tipo di intervento”. Martin era perfettamente consapevole del paradosso del suo gesto, il che è parte del suo eroismo. “Gli avrei sparato io per primo se avessi saputo quello che stava per fare – dice – ma 20 secondi dopo cercavo solo di salvare la vita di un essere umano”.

La sera di sabato scorso, quando Yael Yekutiel, Shir Hajaj, Shira Tzur ed Erez Orbach erano ancora vivi e pregustavano il loro tour a Gerusalemme, una bella persona di nome Ziv Shilon, un ufficiale che ha perso un braccio combattendo Hamas a Gaza, nel clima lacerante del dopo-verdetto Azaria aveva deciso di andare in Piazza Rabin, a Tel Aviv, per invocare pubblicamente solidarietà reciproca contro ogni degenerazione violenta del dibattito nel paese: “anche a costo di andarci da solo”, aveva scritto su Facebook. Si sono presentati in migliaia, di destra e di sinistra: una grande manifestazione spontanea che si è tenuta prima dell’attacco terroristico, dimostrando che non abbiamo bisogno della violenza dei nostri nemici per unirci fra noi. Dobbiamo nutrire questa capacità di unirci: con più benevolenza, più comprensione reciproca, più umiltà, più disponibilità all’autocritica e affetto sincero per i nostri compagni di viaggio – gli israeliani, gli ebrei e gli esseri umani tutti – anche quando non siamo d’accordo.

(Da: Jerusalem Post, 10.1.17)