Appuntamento nel Bahrain

Purtroppo non sorprende l’ennesimo rifiuto palestinese: ogni volta con una scusa diversa, sempre a spese della loro stessa popolazione e delle prospettive di pace

Editoriale del Jerusalem Post

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh (a destra) e il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, lo scorso aprile a Ramallah

Ancora una volta i palestinesi sembrano determinati a non perdere l’occasione di perdere un’occasione. La scorsa settimana, gli Stati Uniti e il Bahrain hanno diffuso un comunicato congiunto che annunciava un “workshop economico” a Manama per la fine di giugno, presentandolo come la prima fase del lancio del tanto atteso piano di pace dell’amministrazione Trump. Come previsto, i palestinesi hanno respinto l’invito. Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto che i palestinesi e i loro dirigenti non cercano un miglioramento delle condizioni di vita “sotto l’occupazione”. Il governo palestinese, ha aggiunto, non è stato consultato sul previsto workshop (in effetti Olp e Autorità Palestinese hanno interrotto i contatti diplomatici con l’amministrazione Trump dalla fine del 2017, ndr).

E’ un peccato. Anche se siamo scettici sul fatto che il cosiddetto “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump riesca a portare la pace in Medio Oriente, l’Autorità Palestinese non dovrebbe semplicemente respingerlo tutto d’un colpo. Farlo, costituisce una sconfitta per il popolo palestinese e un fallimento come leadership. Qualsiasi piano di pace – non importa da chi proposto – deve includere un capitolo economico serio e completo. L’amministrazione Usa a spiegato in lungo e in largo che il seminario nel Bahrein non intende rimpiazzare una soluzione politica e diplomatica del conflitto, ma serve piuttosto per accompagnarla.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Nella gigantografia sullo sfondo, il suo predecessore a capo dell’Olp e dell’Autorità Palestinese, Yasser Arafat

Tuttavia, c’è ben poco da sorprendersi per il rifiuto palestinese. Yasser Arafat rifiutò l’offerta generosa che Ehud Barak gli fece a Camp David nel 2000. Abu Mazen non ha mai nemmeno risposto all’offerta che gli fece Ehud Olmert nel 2008. Nel 2010 il primo ministro Benjamin Netanyahu bloccò per quasi un anno tutte le attività edilizie ebraiche in Cisgiordania e nel 2014 approvò una serie di scarcerazioni di detenuti: tutto nel tentativo di convincere i palestinesi a sedere al tavolo negoziale. Inutilmente.

L’intransigenza palestinese è un tema ricorrente. Ricevono un’offerta dopo l’altra e trovano sempre una scusa per rifiutarla. La scusa usata questa volta è che gli americani sono unilaterali, sono prevenuti per Israele e stanno cercando di comprare i palestinesi col denaro perché rinuncino ai loro diritti su terra e stato indipendente. Ma se provassero un approccio diverso? Perché non presentarsi al seminario economico nel Bahrain, partecipare al workshop e sfidare americani e israeliani a fare le concessioni necessarie per raggiungere una pace sostenibile e duratura? Perché non gettare la palla nella metà campo israeliana e vedere se Netanyahu e il nuovo governo che sta cercando di formare sono in grado di ricambiare?

La risposta potrebbe essere che la dirigenza palestinese di Ramallah non vuole veramente la pace. Abu Mazen e i suoi colleghi al comando dell’Olp e di Fatah sembrano preferire che il conflitto continui, in modo da garantire la sopravvivenza del loro regime e del loro potere. Se si arrivasse alla pace, cosa potrebbero raccontare alla loro gente? Dovrebbero fare davvero riforme economiche, che costerebbero loro parecchio, e dovrebbero dare vita a istituzioni di vera trasparenza, che rivelerebbero la corruzione che dicono molto diffusa e radicata nell’Autorità Palestinese. Se ci fosse la pace, Abu Mazen dovrebbe indire vere elezioni, libere e aperte, una cosa che non si è sognato di fare sin dal 2005. Se ci fossero vere elezioni, Abu Mazen dovrebbe affrontare veri sfidanti e potrebbe perdere. Dunque, andare nel Bahrain metterebbe a repentaglio tutto quanto.

Ma la ragione per andare comunque è che entrambi i popoli, israeliano e palestinese, meritano di meglio. Meritano una realtà o, per lo meno, un autentico tentativo di porre fine a questo conflitto. Una realtà diversa è possibile. Magari non come quella che il mondo aveva immaginato dopo la firma degli accordi di Oslo del 1993 fra Arafat e Yitzhak Rabin, ma con una autentica leadership una possibilità c’è. Questo sarà dunque un test di leadership definitivo: vogliono migliorare la realtà dei loro popoli o si adoperano solo per la propria sorte e sopravvivenza? I leader, da entrambe le parti, devono essere pronti ad assumersi rischi e a pagare prezzi politici in prima persona. E ben venga il Bahrain come primo passo.

(Da: Jerusalem Post, 25.5.19)