Araba, musulmana, giornalista della tv israeliana, sopravvissuta al terrorismo

Chi è Lucy Aharish, uno dei 14 cittadini chiamati ad accendere la torcia che segna l’inizio dei festeggiamenti di Yom Ha'Azmaut

Lucy Aharish

Lucy Aharish

Lucy Aharish era una bambina di 6 anni quando l’auto dove viaggiava con i suoi genitori, dopo aver fatto compere a Gaza, venne attaccata da un terrorista palestinese. “Era l’aprile 1987 – ricorda – una giornata molto calda, e mio padre aveva aperto il finestrino. Mi ricordo di un ingorgo nel traffico e d’aver visto qualcuno avvicinarsi a noi con qualcosa in mano. Lo guardai, lui mi guardò e io iniziai automaticamente a scivolare giù da mio sedile per la paura. Mia madre mi stava dicendo ‘Lucy, stai dritta’, quando sentimmo un botto”. Il terrorista aveva scagliato dentro la macchina una molotov, che il padre riuscì prontamente a ributtare fuori, e un’altra sopra il tettuccio che innescò un incendio avvolgendo il vicolo nelle fiamme. Lucy e i suoi genitori se la cavarono senza grosse conseguenze, ma il cuginetto di 3 anni subì gravi ustioni su tutto il corpo e restò ricoverato per lunghi mesi. “Il volto di quell’uomo è inciso nella mia memoria – dice Aharish parlando a Times di Israel, in un caffè di Tel Aviv, con il suo ebraico perfetto privo di accento – Crescendo, continuavo a non capire come qualcuno potesse essere così cattivo”.

Un'auto israeliana colpita da molotov palestinesi (foto d'archivio)

Un’auto israeliana colpita da molotov palestinesi (foto d’archivio)

Quell’attentato terroristico è stato un episodio determinante nella vita di Aharish, destinata a diventare la prima araba conduttrice in prima serata di una televisione israeliana. Il mese scorso le è stato conferito uno degli onori più alti in Israele: è stata scelta per essere uno dei quattordici cittadini chiamati ad accendere una torcia nella cerimonia sul Monte Herzl di Gerusalemme che apre le celebrazioni di Yom Ha’Azmaut, la Giornata dell’Indipendenza. Aharish è una “pionieristica giornalista musulmana che porta avanti un discorso di tolleranza e di apertura interconfessionale in Israele”, ha scritto il Comitato ministeriale guidato dall’ex ministra degli affari culturali Limor Livnat, che quest’anno ha dedicato la cerimonia ai cittadini israeliani che hanno aperto strade nuove in diversi campi.

Discorso sicuramente complesso, quello dell’identità, per la 33enne icona televisiva arabo-israeliana. Lo scorso luglio, mentre le Forze di Difesa erano impegnate nei combattimenti contro Hamas nelle strade di Gaza, Aharish ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Io non sono né araba né ebrea. Non sono né cristiana né musulmana né drusa né buddhista né circassa. Non sono né di sinistra né di destra. Non sono né religiosa né laica. Non voglio vedere ragazzini rapiti e uccisi. Non voglio vedere ragazzini bruciati a morte. Non voglio sentire le sirene e veder lanciare missili… io vorrei che aprissimo gli occhi sulla rabbia e sull’odio che ci stanno mangiando vivi”. Nell’intervista a Times of Israel, Aharish suona un po’ più pacata. “Oggi, quando la gente mi chiede: cosa sei? io dico che sono una israeliana. Non mi vergogno della mia israelianità. Poi sono una donna, poi sono un’araba musulmana. Questo è quello che sono, in quest’ordine: israeliana, donna, araba e musulmana”.

Ci volle del tempo ad Aharish per sviluppare una visione articolata del conflitto. In quanto vittima del terrorismo cresciuta in una città di sviluppo come Dimona abitata da ebrei per lo più di origine marocchina, dice d’aver inizialmente respirato un’atmosfera parecchio ostile verso la “causa araba”.

Lucy Aharish il giorno del suo quarto compleanno

Lucy Aharish il giorno del suo quarto compleanno

Figlia di genitori laici che si erano trasferiti da Nazaret nei primi anni ‘70 a seguito di una interessante offerta di lavoro per suo padre, Aharish è cresciuta parlando in casa un mélange di ebraico e arabo (“ma litigavamo sempre in arabo”), intrecciando uno stretto rapporto con un vicino di casa sopravvissuto alla Shoà chiamato Menahem: una sorta di nonno, per lei che non aveva mai conosciuto i nonni reali. Festeggiava la Pasqua coi vicini ebrei e si vestiva da regina Ester per la festa di Purim. “Ho assorbito tanto dalla cultura ebraico-israeliana – dice – Non sapevo nemmeno cosa fosse la Nakba”, la parola araba con cui i palestinesi indicano la loro “catastrofe nazionale” seguita alla nascita dello stato d’Israele. Ma sfuggire del tutto al suo retaggio sarebbe stato impossibile. A scuola non mancarono insulti ed episodi di bullismo. “Non è stata un’infanzia facile – spiega – Negli anni ’90 ci furono attentati terroristici atroci, e arrivando a scuola la mattina dopo sapevi che inevitabilmente avresti sentito cose pesanti. C’era sempre chi sbottava: bisognerebbe ucciderli tutti, gli arabi. Poi improvvisamente qualcuno mi notava e diceva: naturalmente tu no, Lucy, tu non sei come loro”.

La città di Dimona, nel Negev

La città di Dimona, nel Negev

Aharish ha parole di elogio per la posizione intransigente contro il razzismo che aveva Meir Cohen, il preside della sua scuola superiore, successivamente diventato sindaco di Dimona e più di recente Ministro del welfare e dei servizi sociali per il partito Yesh Atid. “Violenze e razzismo non erano mai tollerati. Se compariva una scritta su un muro, bloccava la giornata scolastica, si metteva davanti a tutta la scolaresca e diceva: nella mia scuola queste cose non devono accadere. Il razzismo è una cosa che nessuna società civile può tollerare, specialmente una società ebraica. Non so se questi principi vengano ancora fatti valere nel sistema educativo”.

Qualcosa cambiò, per Aharish, quando a 18 anni lasciò casa per andare a studiare all’Università di Gerusalemme. “Ero su un autobus lungo la strada che corre fra Gerusalemme est e ovest quando vidi dal finestrino un soldato mettere quattro giovani contro un muro ingiungendo loro di sollevare le camicie [per controllare che non indossassero cinture esplosive, ndr] mentre teneva in mano i loro documenti e puntava contro di loro la sua arma. Mi son detta: ehi, ecco qualcosa che non conoscevo, nessun essere umano merita di essere umiliato in quel modo”.

Tuttavia Aharish dice di non poterne più del “discorso vittimistico” che a suo dire permea la società israeliana, e che è nettamente più pronunciato tra gli arabi. Ad un recente dibattito televisivo è stata accusata da un rappresentante del partito nazionalista arabo Balad di “colpevolizzare la vittima”. “Gli ho detto: Chi è la vittima? Tu sei una vittima? E’ un tuo problema. Io non sono vittima di nessuno. Il giorno in cui noi arabi smetteremo di vederci come vittime sarà il giorno in cui potremo iniziare a progredire e ad esigente i nostri diritti. Ma finché ti consideri una vittima, non concludi mai niente”.

Meir Cohen

L’ex sindaco di Dimona, Meir Cohen

Questa schiettezza le ha procurato non pochi problemi con parecchi suoi connazionali arabi. Quando Aharish prese pubblicamente posizione contro la parlamentare di Balad Hanin Zoabi che giustificava il rapimento e l’uccisione di tre adolescenti israeliani, venne accusata dall’attivista sociale Hanin Majadli di soffrire di “una crisi di identità”. Aharish dice che non se la prende per queste critiche. “Io rispetto la loro identità, ma questa è la mia identità e loro dicano pure quello che vogliono. Il problema – aggiunge – è che ci piace tantissimo contemplare il passato. Diciamo: nel ’48 è successo questo e questo, nel ’67 è successo così e così. E il presente? Dopo che abbiamo pianto, come risolviamo quello che succede oggi? Come affrontiamo il fatto che la gente, qui, tende a pensare che gli arabi sono il nemico?”. Lo stesso vale, secondo Aharis, per un certo atteggiamento vittimistico di chi difende le posizioni di Israele: “Rispetto agli arabi, Israele si presenta costantemente come la vittima: tutto il mondo è antisemita eccetera. Invece dovremmo sforzarci di mostrare la verità così com’è, e la verità è molto più complessa che dire semplicemente: io ho ragione, tu hai torto”.

Inizialmente Aharish non pensava di diventare giornalista. Il suo sogno, dopo la scuola superiore, era fare l’attrice. “Mi ha sempre affascinato la capacità di far ridere o suscitare emozioni”, spiega. Ma suo padre aveva altri piani: prima doveva prendere una laurea, poi avrebbe fatto quello che voleva. Così Aharish si iscrisse a studi teatrali e scienze politiche all’Università di Gerusalemme. Dopo la laurea, ha trascorso due anni studiando giornalismo presso la scuola Koteret di Tel Aviv, seguiti da sei mesi di stage in Germania. Al suo ritorno in Israele, nel febbraio 2007, è stata assunta dalla tv Channel 10 dove divenne la prima conduttrice delle News in arabo. Ben presto le venne assegnata l’esclusiva degli affari palestinesi, con servizi periodici dalla Cisgiordania. “Gli intervistati mi dicevano: wow, parli proprio bene l’arabo! Io dicevo: sono araba, ma poi dovevo mostrare la carta d’identità per dimostrarglielo”. Ci volle del tempo ai suoi interlocutori palestinesi per abituarsi all’idea di parlare con una giornalista araba con cui non potevano facilmente girare attorno alle questioni. “Mi sono guadagnata il rispetto dei palestinesi di Cisgiordania parlandoci in arabo e guardandoci negli occhi come amici”, dice.

Lucy Aharish conduce l'edizione serale del TG in inglese su i24news

Lucy Aharish mentre conduce l’edizione serale del TG in inglese su i24news

Nel corso della sua carriera relativamente breve come giornalista tv, Aharish ha maturato esperienza in una vasta gamma di settori: come reporter dalla Cisgiordania, nell’intrattenimento dello show Guy Pines, come conduttrice delle News in prima serata su Channel 10, come direttore di un telegiornale del pomeriggio per i bambini su Channel 1. Ha anche realizzato il suo antico sogno recitando in ruoli minori in alcuni film israeliani e, nel 2013, nel blockbuster World War Z con Brad Pitt.

Ma un ruolo che non pensa di poter raggiungere è quello di conduttrice del principale TG serale su un canale nazionale israeliano. “Non è una questione di razzismo – dice – quanto la paura degli stereotipi che frena i decisori. Una paura infondata, perché gli spettatori sono già preparati, ma manca il coraggio”. Come presentatrice dell’edizione in prima serata serale del TG in inglese su i24news, un canale di notizie internazionale lanciato nel 2013 con sede a Gaffa, Tel Aviv, Aharish dice di sentirsi più influente di qualsiasi emittente locale. “Portare nel mondo una voce diversa da Israele è la più grande influenza che posso desiderare di avere – dice – Cerco di spiegare ai telespettatori che la vita, qui in Israele, è quasi impossibile, eppure viviamo lo stesso”.

Aharish è rimasta molto sorpresa quando ha ricevuto la telefonata che la informava che era stata scelta per l’accensione di una torcia di Yom Ha’Azmaut. “Mi sono commossa alle lacrime – ammette – e mi sono chiesta: cosa ho fatto per meritarmi questo? Ci sono persone che hanno vissuto cose molto più difficili di me”. Accendendo la torcia, Aharish penserà anche alla sua famiglia, seduta fra il pubblico. “I miei genitori sono sempre con me, anche quando non siamo d’accordo sulle mie scelte di vita. Nonostante tutto, sono sempre molto orgogliosi di me”.

Dove sarà Aharish tra dieci anni? Non necessariamente nei mass-media, pensa. “Mi vedo gestire un piccolo bar in Toscana – sorride – La telecamera non è la missione della mia vita. Sono più interessata a ciò che accade dietro le quinte. La telecamera è solo una gratifica”.

(Da: Times of Israel, 20.4.15)

Lucy Aharish accende la torcia alla cerimonia di Yom Ha’Azmaut, la sera del 22 aprile 2015 a Gerusalemme (fermoimmagine da Channel 2)

“C’è gente molto arrabbiata con me” dice Lucy Aharish a proposito delle reazioni di tanti arabi alla sua partecipazione all’accensione della torcia. Su Facebook ha visto post che la attaccano da tutte le parti: alcuni estremisti ebrei, ma soprattutto molti arabi. “Non vi conosco nemmeno e mi degradate come essere umano definendomi mostro, maiale, sporca sionista, donnaccia ebrea. Ma come si permettono? Da dove viene tutto questo odio? C’è chi mi dice: non dovresti essere qui, non è il tuo posto, vattene a Gaza. Io dico no, no e no. Questo è il mio paese, io sono una cittadina e devo avere i miei diritti come minoranza”. Aharish, che ha attaccato con durezza il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per i suoi commenti sul “voto arabo” durante le ultime elezioni, è anche molto critica verso i parlamentari arabi israeliani, ed è scettica sul fatto che l’alleanza elettorale di quattro partiti arabi possa aiutare la minoranza araba. “E ‘impossibile mettere tutti gli arabi sotto un unico ombrello – spiega – E’ come dire che tutti gli arabi la pensano allo stesso modo, e non è vero”. A differenza di molti altri cittadini arabi d’Israele, Aharish dice di non essersi mai definita palestinese. “Ho un paese – dice – ho un passaporto. Quando sono all’estero, dico che sono israeliana”. Ma allo stesso tempo dice di temere che, nonostante il suo successo personale e l’onore dell’accensione della torcia, possa scoprire, in quanto araba, che non sarà mai accettata fino in fondo dalla società israeliana. Nonostante il suo insolito background, per molti versi Aharish è perfettamente israeliana: festeggia con i suoi amici la Giornata dell’Indipendenza, e la prima volta che è andata in Germania si è trovata a disagio con la lingua a causa delle associazioni con la Shoà. Né si identifica con la causa palestinese, che lei definisce importante, ma non centrale per i problemi attuali della regione. Dice che comprende e accetta la Nakba, ma che non è parte della sua storia: la sua famiglia non ha perso né parenti né proprietà, nel 1948, e la prima volta che ha sentito parlare di Nakba è stata da studente all’Università di Gerusalemme. Eppure la Nakba non può essere ignorata, dice, e se Israele vuole avere un futuro, allora gli ebrei israeliani devono comprenderla. Aharish è critica verso quegli ebrei che hanno la presunzione di capire cosa vogliono arabi e palestinesi senza nemmeno parlare con loro, e ha un sacco di critiche da muovere a quegli arabi che vogliono godere di tutti i diritti della cittadinanza israeliana, senza i doveri: se vogliono pieni diritti, insiste, devono contribuire attraverso il servizio civile nazionale almeno presso le loro comunità. In effetti Aharish ha tante idee su come migliorare la società israeliana, ma a differenza di altri suoi colleghi giornalisti diventati parlamentari, come Yair Lapid o Shelly Yacimovich, dice che non c’è “nessuna possibilità” che si dia alla politica in questo momento. Si può fare di più lavorando in televisione, conclude”. (Da: Ha’aretz, 22.4.15)