Archeologia: la passione nazionale degli israeliani, e non per caso

La ricerca di reperti ebraici, perfettamente compatibile con quella di altre epoche e civiltà, smentisce coloro che dipingono gli ebrei come intrusi estranei nella loro terra

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

“L’archeologia in Israele è un movimento popolare – scrisse Amos Elon nel suo libro del 1971 The Israelis: Founders and Sons (“Israeliani. Padri fondatori e figli”) – È quasi uno sport nazionale: non uno sport per spettatori passivi, ma il passatempo attivo ed elettrizzante di molte migliaia di persone” come può essere la pesca o la caccia in altri paesi.

Quelle parole di mezzo secolo fa sono risuonate di nuovo, un paio di settimane or sono, quando alcuni eccezionali ritrovamenti archeologici sono finiti sulle prime pagine dei giornali e nell’apertura in prima serata dei notiziari radio-televisivi del paese. Sebbene sia trascorso molto tempo da quando si poteva onestamente affermare di percepire nella popolazione israeliana il fervore per l’archeologia descritto da Elon, il fatto che i mass-media abbiano dedicato così tanta attenzione a questi reperti, in una settimana che era dominata dalle notizie politiche, indica che ancora ardono le braci dalla grande passione d’Israele per gli scavi archeologici.

Quel giorno, l’Authority israeliana per le antichità ha annunciato una collezione di reperti provenienti da un’operazione archeologica su vasta scala in corso dal 2017 nelle remote grotte del deserto di Giudea. Fra i reperti, un cesto intrecciato che si ritiene antico di circa 10.500 anni e lo scheletro di una bambina di 6.000 anni fa. Si tratta di scoperte di interesse “universale”.

I nuovi frammenti di rotoli biblico trovati in una grotta del deserto di Giudea (clicca per ingrandire)

Di più spiccato interesse ebraico la scoperta di frammenti di antichi rotoli dei libri biblici di Zaccaria e Naum, nonché monete risalenti alla rivolta anti-romana di Bar-Kochba del 132 e.v. Di più. Questi ritrovamenti arrivavano solo una settimana dopo che un’altra notizia archeologica era finita su tutti i mass-media. Durante un’escursione nel Negev con la sua famiglia, un ragazzino di 11 anni aveva trovato una statuetta, probabilmente un amuleto della fertilità, risalente all’epoca del Primo Tempio ebraico.

I reperti rinvenuti nel deserto di Giudea non sono stati scoperti adesso tutti insieme. Sono stati portati alla luce nel corso di più di un anno. La cosa ha la sua importanza. Evidentemente la l’Authority israeliana per le antichità ha deciso di annunciarli insieme, sia quelli di carattere universale sia quelli di particolare interesse ebraico. Una scelta non casuale. Spesso gli archeologi israeliani sono stati accusati di concentrarsi sulla ricerca di reperti che avvalorano le rivendicazioni ebraiche sulla Terra d’Israele a costo di lasciare in ombra altre scoperte, come il cesto e lo scheletro preistorici, che non presentano una “prospettiva israeliana”. “Nella cultura politica di Israele – scriveva Elon cinquant’anni fa – il ruolo simbolico dell’archeologia è immediatamente evidente. Gli archeologi israeliani, professionisti e dilettanti, non cercano solo oggetti antichi e nuovi elementi conoscenza, ma anche la conferma delle radici che si trovano negli antichi reperti israeliti sparsi in tutto il paese”.

In effetti è del tutto naturale che un popolo, diffusamente e continuamente accusato di essere un intruso in una terra non sua, trovi conforto nei manufatti che attestano la sua presenza in quella terra risalente a più di tre millenni fa. Da Masada alla Città di David a Tel Shilo (Silo), ogni volta che gli archeologi israeliani fanno una scoperta sorprendente che getta luce sulla storia biblica o ebraica vengono accusati di cercare e trovare solo manufatti ebraici allo scopo di occultare la storia di altri popoli che storicamente erravano o risiedevano in questa terra. In realtà, la ricerca e il ritrovamento di reperti ebraici, così come la scoperta di siti archeologici ebraici, non nega né contraddice la presenza di altre civiltà nel paese. Ma ciò che senz’altro sono in grado di fare queste scoperte è confutare e smentire le tesi di coloro che negano che gli ebrei siano mai stati uno di quei popoli che erravano e risiedevano qui, Gerusalemme compresa. Come fece ad esempio Yasser Arafat quando, a Camp David nel 2000, disse al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che non c’è mai stato nessun tempio sul Monte del Tempio di Gerusalemme, e che semmai stava a Nablus. E nel 2016 la stessa Unesco, l’organizzazione Onu per l’educazione la scienza e la cultura, ha approvato una risoluzione che si riferisce al Monte del Tempio esclusivamente con il termine arabo Haram al-Sharif, disconoscendo così qualsiasi legame del sito e di Gerusalemme con l’ebraismo.

Annunciando nello stesso giorno le scoperte archeologiche di carattere sia ebraico che generale, l’Authority israeliana per le antichità ha affermato un concetto: siamo interessati e concentrati sia sulle scoperte ebraiche sia su quelle generali. Ma per quanto fossero significativi i ritrovamenti del cesto intrecciato e dell’antico scheletro mummificato, probabilmente per la maggior parte degli ebrei israeliani le scoperte di particolare carattere ebraico hanno avuto una risonanza speciale. Ossa di esseri umani primitivi si possono trovare nelle pianure della Tanzania, antichi cesti intrecciati possono essere rinvenuti nelle piramidi del Perù. Ma solo in Israele si può trovare una versione greca di Zaccaria con la parola “Dio” scritta in antiche lettere ebraiche, e solo in Israele si possono trovare monete coniate per commemorare l’ultimo grande tentativo di indipendenza ebraica.

E qual è il frammento biblico trovato e meticolosamente ricostruito? Un passo di Zaccaria (8,16-17) curiosamente appropriato nel momento in cui Israele si apprestava a votare: “Ecco ciò che dovrete fare. Dite la verità l’un l’altro, parlate in verità ciascuno al suo prossimo. Alle vostre porte, date giudizi secondo verità, giustizia e pace. Non tramate il male gli uni contro gli altri, non amate il giuramento falso poiché io detesto tutto questo, dice il Signore”.

Dando voce ai sentimenti di molti entusiasti e persino commossi dal ritrovamento, Ofer Sion, capo del Dipartimento indagini sulle antichità, ha detto in un’intervista a Canale 13 che “abbiamo tra le mani” un frammento “su cui leggeva un ebreo, uno dei nostri antenati”. Dopo 1.900 anni di “amarissimo esilio”, ha aggiunto, manufatti come quelli trovati nel deserto di Giudea sono “il punto più vicino ai nostri progenitori a cui possiamo arrivare”.

(Da: Jerusalem Post, 17.3.21)