Assad e Iran cantano vittoria (e Israele si sente di nuovo solo)

Obama che cerca l’approvazione del Congresso per la reazione alla strage chimica viene visto come debole e titubante in Siria, in Iran, in Libano. E a Gerusalemme

Di Avi Issacharoff

Il presidente Usa Barack Obama durante il discorso di sabato sulla Siria

Il presidente Usa Barack Obama durante il discorso di sabato sulla Siria

Bashar Assad può rilassarsi. Barack Obama ha fatto una mezza marcia indietro e ha affidato al Congresso la decisione se attaccare la Siria. Può darsi che dal suo punto di vista fosse un passo necessario. Può anche darsi che politicamente sia stata una decisione saggia, in un’America traumatizzata da Iraq e Afghanistan. Ma i sorrisi sui volti dei capi in Siria, in Libano e in Iran all’ascolto del discorso di sabato di Obama la dicono fin troppo lunga.

Fino a sabato la politica di Obama in Medio Oriente è stata generalmente considerata, nel mondo arabo e islamico, confusa e incoerente. A partire da sabato Obama sarà percepito come uno dei più deboli presidenti della storia americana.

Quel sentore di debolezza è pomposamente arrivato sino in Iran. Subito dopo il discorso di Obama, Amir Mousavi, capo del Centro per gli Studi della Difesa Strategica di Teheran, ha dichiarato alla tv al-Jazeera che Obama è incerto e titubante. Più o meno nello stesso momento il comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, Mohammad Ali Jafari, proclamava che “gli Stati Uniti si sbagliano di grosso se pensano che la reazione a un attacco contro la Siria sarà limitata al territorio siriano”. Parole che fanno parte verosimilmente di una manovra per scoraggiare i membri del Congresso dal sostenere l’intervento militare contro il regime di Assad per il suo massiccio uso di armi chimiche contro la popolazione civile. Nel frattempo, come gesto di solidarietà, si è recata in visita ufficiale a Damasco una delegazione parlamentare iraniana guidata da Alaeddin Boroujerdi, presidente della Commissione Esteri e Difesa e molto vicino alla Guida Suprema, Ali Khamenei.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso marzo a Gerusalemme

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso marzo a Gerusalemme

Impossibile non tracciare un collegamento tra la Siria e l’Iran. Dopo l’uso da parte di Assad di armi di distruzione di massa tali da uccidere, come ha specificato il Segretario di Stato Usa John Kerry, 1.429 cittadini siriani (dei quali più di 400 minorenni), Obama tentenna, benché Assad non abbia alcuna concreta capacità di colpire in modo sostanziale gli interessi americani. Dunque che cosa potrà mai fare Obama il giorno in cui l’Iran deciderà di completare lo sviluppo di armi nucleari? Khamenei e i suoi consiglieri si rendono conto che le probabilità che questa amministrazione faccia ricorso alla forza militare contro un paese con la capacità militare dell’Iran sono estremamente basse, se non inesistenti. E non sono gli unici a rendersene conto. Alle stesse conclusioni stanno arrivando anche Hezbollah e al-Qaeda.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi colleghi di governo, che senza dubbio hanno seguito attentamente il discorso di Obama di sabato dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, avranno interiorizzato ciò che sospettavano da tempo: che Washington non sarà il luogo da cui arriveranno buone notizie quando si tratterà di sventare concretamente la volontà dell’Iran di dotarsi di armi nucleari.

Intanto la Siria torna alla tragica routine della sua guerra civile. L’esercito siriano ingaggia aspre battaglie contro le forze ribelli in tutto il paese, e Assad utilizza la sua forza aerea per bombardare quartieri residenziali: non con armi chimiche, per carità, solo con armi convenzionali.

Il regime di Assad sa bene che una risposta americana alla fine arriverà. Ma sarà limitata, debole e tardiva: di dimensioni tali da permettere a Bashar Assad non solo di sopravvivere, ma anche di cantare vittoria.

(Da: Times of Israel, 1.9.13)