Avraham Sutzkever e il poeta yiddish in Israele

Relazione tenuta al Convegno “Sessant’anni di poesia israeliana” (Milano, 12 maggio 2008)

di Anna Linda Callow

image_2191Lunedì 12 maggio 2008, presso la Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano, su iniziativa della Cattedra di Lingua e Letteratura Ebraica e dell’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, si è tenuta una giornata di studi intitolata “Sessant’anni di poesia israeliana”, che ha visto la partecipazione dei poeti israeliani Shimon Adaf, Ori Bernstein, Maya Bejerano, Tali Latowicki.
Le relazioni sono state tenute dai professori Sara Ferrari, Genya Nahmany e Anna Linda Callow dell’Università di Milano; Ariel Hirschfeld, Yael Reshef e Ariel Rathaus dell’Università di Gerusalemme.
Pubblichiamo qui di seguito la relazione di Anna Linda Callow.

AVRAHAM SUTZKEVER E IL POETA YIDDISH IN ISRAELE

La società israeliana è, come è ovvio vista la sua storia, una società multilingue. E’ quindi naturale che se per “letteratura israeliana” intendiamo la letteratura prodotta nello Stato d’Israele, non ci troveremo soltanto di fronte a una letteratura in lingua ebraica ma a una produzione in una varietà di lingue diverse. Tra esse, ma non sono le sole, si possono citare l’arabo, seconda lingua ufficiale dello Stato, il russo, ovvero la lingua della più recente ondata di immigrazione di massa , e lo yiddish. La posizione dello yiddish nella storia dello yishuv prima, e in quella dello Stato d’Israele poi, è un argomento che merita attenzione. Essa fu infatti motivo di accese discussioni e di scontri violenti all’interno del rinnovato insediamento ebraico nella Palestina ottomana prima e mandataria poi e occasione di dispute e frizioni con gli ebrei della Diaspora. Lo yiddish, che era visto come un pericoloso concorrente per la rinascita della lingua ebraica, fu oggetto di violente contestazioni pubbliche e boicottaggi . Nel 1927 si arrivò al punto di bocciare la proposta di istituire una cattedra di yiddish all’Università ebraica di Gerusalemme, che era stata da poco fondata. Lo stesso poeta della rinascita nazionale, Haim Nahman Bialik, che scriveva in entrambe le lingue, ebbe alcune disavventure a questo proposito . Nel 27 infatti fu contestato per le sue posizioni in difesa dello yiddish e si dimise per protesta dalla Associazione degli scrittori di lingua ebraica. Un anno dopo fu citato in giudizio per aver insultato un uomo che lo aveva rimproverato perché l’aveva sorpreso a parlare in yiddish per la strada a Tel Aviv. Non molti anni dopo questi avvenimenti, la distruzione delle comunità ebraiche dell’Europa orientale a opera dei nazisti e dei loro sostenitori si abbatté come una scure sullo yiddish sotto un duplice punto di vista: da un lato ne annientò fisicamente un gran numero di parlanti, lettori e scrittori, dall’altro le conferì lo status di lingua della Shoah, di lingua più parlata a Auschwitz. Lo yiddish e la sua letteratura diventarono una sorta di testamento degli ebrei dell’Europa orientale scomparsi, e un qualcosa in cui si identificarono molti ebrei sopravvissuti, anche tra coloro che non erano cresciuti in questa lingua prima della guerra perché provenienti da famiglie assimilate in cui si parlava polacco o tedesco. Non è casuale che lo stesso Primo Levi abbia scelto un proverbio yiddish come apertura dei racconti di Il sistema periodico. In alternativa, come osserva il noto critico israeliano Dan Miron, la cultura sionista di lingua ebraica delegò allo yiddish il ruolo di lingua “comica”, ed esso fu spesso usato, soprattutto in occasioni pubbliche, per divertire l’uditorio. Oratori a vario titolo solevano condire i loro discorsi, tenuti in ebraico, con battute e barzellette nello jargon che fino a pochi anni fa una buona parte del pubblico israeliano era perfettamente in grado di capire . Questi due ruoli antitetici, il tragico e il comico, vanno ugualmente “stretti” a una lingua che aveva avuto l’aspirazione di essere, e che per il breve periodo tra le due guerre era anche stata, il mezzo di espressione della vita quotidiana di un intero popolo, la lingua di insegnamento di un sistema scolastico moderno e sviluppato, di una ricca letteratura, di pubblicazioni scientifiche di alto livello. Sono questi gli anni in cui Avraham Sutzkever inizia a scrivere, scegliendo questa lingua come mezzo di espressione per la sua poesia.
La biografia di Sutzkever è, suo malgrado, una tale collezione di eventi emblematici per la storia del XX secolo che meriterebbe una trattazione ben più estesa di quella possibile in questa sede, qui mi limiterò a riassumerla per sommi capi. Sutzkever nasce in Bielorussia nel 1913 e trascorre i primi anni d’infanzia in Siberia, dove la sua famiglia era scappata durante la Prima guerra mondiale; nel 1920 la madre, rimasta vedova, si stabilisce a Vilna, entrata allora a far parte della Polonia indipendente. In questa città dall’antica tradizione di cultura ebraica Sutzkever riceve un’educazione di stampo prevalentemente laico in un ginnasio ebraico-polacco, ed è in ebraico che, giovanissimo, scrive i suoi primi tentativi poetici. Ma la Vilna di quegli anni è la Vilna dello YIVO, il maggior istituto di ricerche in campo ebraico a svolgere le proprie attività in lingua yiddish, in cui operano figure storiche come il linguista Max Weinreich. Il giovane Sutzkever entra in contatto con Weireich negli anni 30, quando diventa membro di un’organizzazione giovanile yiddish di tendenza laica e socialista che appoggia lo yiddish come lingua ufficiale del popolo ebraico. In questo modo Sutzkever ha l’occasione di conoscere la moderna letteratura yiddish, allora in pieno sviluppo, che non rientrava nel programma di studi della scuola che aveva frequentato. Comincia a scrivere poesie in yiddish e partecipa alle riunioni di un gruppo di giovani scrittori e artisti denominato Yung Vilne, di orientamento politico comunista. Pubblica la sua prima raccolta di poesie nel 1937, e una seconda nel 1940, nel brevissimo periodo della Lituania indipendente. Il 22 giugno del 1941 la Lituania è invasa dai nazisti e il 24 le truppe tedesche entrano a Vilna. Per più di due anni Sutzkever condivide insieme agli altri ebrei della sua città l’esperienza del ghetto, la cui popolazione si assottiglia progressivamente con le fucilazioni di massa. Di giorno lavora nella sede dello YIVO, dove confluiscono libri, manoscritti e opere d’arte sequestrati dai tedeschi per essere sottoposti a una cernita e, se di valore, spediti in Germania. Quando i tedeschi allentano la guardia, Sutzkever, insieme agli altri membri della sua brigata, lavora assiduamente per trafugare e contrabbandare nel ghetto documenti importanti che vengono nascosti e sepolti in vari luoghi. Nelle ore libere scrive in modo febbrile e prende parte all’organizzazione delle attività culturali nel ghetto, anche con letture pubbliche delle sue opere. Pochi giorni prima della definitiva liquidazione del ghetto, nel settembre del 1943, Sutzkever riesce a fuggire insieme alla moglie e si unisce a una brigata di partigiani nei boschi.
Nel marzo del 1944 il suo poema Kol nidre (Tutti i voti) viene letto in pubblico a Mosca, nella sede del Comitato ebraico antifascista, suscitando una forte impressione. Gli attivisti del Comitato si muovono per portare in salvo il poeta e un aereo viene mandato appositamente per trasferirlo a Mosca. Il 13 luglio 1944 l’Armata rossa libera Vilna e Sutzkever vi fa ritorno: dei 60.000 ebrei che vi abitavano prima della guerra solo 2.000 si sono salvati. I tentativi di Sutzkever e di altri sopravvissuti di rifondarvi una vita culturale ebraica trovano una forte opposizione nelle autorità sovietiche. Anche a Mosca, dove torna nel settembre dello stesso anno, regna tra gli scrittori yiddish un’atmosfera di paura, preludio della liquidazione della cultura yiddish nell’Unione Sovietica che culminerà nel 1952 con la fucilazione di alcuni tra i nomi più noti della letteratura in questa lingua. Nel febbraio del 46 è ascoltato come testimone delle atrocità naziste al processo di Norimberga. Di lì a poco lascia Mosca per la Polonia e successivamente si trasferisce a Parigi. Arriva nella Palestina sotto mandato britannico nel 1947 a bordo della nave di ma’apilim, di immigrati clandestini, “Patria”, in tempo per vivere i mesi tempestosi che precedono e seguono la fondazione dello Stato d’Israele.
Quando penso alla sua biografia di perseguitato dai nazisti e partigiano, eroe sovietico, anche se per poco, e testimone a Norimberga, immigrato clandestino che forza il blocco britannico e attivista culturale nel neonato Stato d’Israele mi viene spontaneo dire che, se avesse scritto in ebraico e non in yiddish, o se lo yiddish avesse avuto una storia diversa in Eretz Yisrael, Sutzkever sarebbe stato l’erede naturale di Bialik. Di fatto fu un testimone diretto di tutti gli eventi capitali per la storia ebraica successivi alla morte del grande poeta e non era meno dotato di questi per interpretarli ed esprimerli nella propria opera. Nell’introduzione all’ultima antologia di Sutzkever in traduzione ebraica, uscita nel 2005 Benjamin Harshav scrive: “Alle orecchie di chi ne conosca la lingua in tutti i suoi tesori nascosti, le sue pieghe, i suoi diamanti, Sutzkever è uno dei più grandi poeti del XX secolo. Non lo dico con leggerezza” . Fin qui le parole di Harshav. Ma torniamo ai fatti.
Il progetto che Sutzkever ha in mente nel momento in cui lascia l’Europa è di creare un periodico in yiddish che riunisca intorno a sé lettori e scrittori della Terra d’Israele e della Diaspora. Nonostante le difficoltà finanziarie e i pregiudizi ideologici contro lo yiddish ancora molto vivi nell’ambiente sionista, all’inizio del 1949, grazie al finanziamento dell’Histadrut, esce il primo numero di Di goldene keyt, di cui Sutzkever sarà il caporedattore fino al 1998 e che negli anni diventerà un punto di riferimento per la cultura yiddish.
Come si è detto Sutzkever non smette mai di scrivere neanche nei momenti più drammatici della guerra, soprattutto poesie, ma anche le sue memorie del ghetto in prosa, e subito dopo la fine della guerra riprende a pubblicare. Le sue opere escono presso case editrici yiddish a Mosca, New York, Parigi, Buenos Aires, Tel Aviv. Sono le poesie scritte negli anni dell’occupazione nazista, poesie che parlano del ghetto e dei partigiani nei boschi, ma molto presto diviene chiaro che Sutzkever non si sente e non vuole diventare un poeta solo della Shoah, o un poeta della nostalgia di un mondo scomparso. Già dalla prima raccolta di poesie nuove, scritte dal 47 in poi, che esce in Israele nel 1952, con il titolo In fayer vogn (Nel carro di fuoco) è evidente che Sutzkever ha tutta l’intenzione di essere un poeta israeliano a pieno titolo. Il ricordo della Shoah infatti si mescola all’entusiasmo per una rinascita del popolo ebraico in Terra d’Israele. Ai paesaggi europei si alternano quelli di Gerusalemme e del Negev. Attraverso la descrizione di questa nuova natura Sutzkever si riallaccia agli esordi della sua produzione che lo avevano visto poeta della natura, specialmente quella della sua infanzia siberiana. A questa prima raccolta faranno seguito, negli anni, numerose altre.
La sua lunga e feconda carriera poetica in Eretz Yisrael non manca di riconoscimenti. Antologie di sue opere escono molto presto in traduzione ebraica, e continuano ad accompagnare negli anni la sua abbondante produzione in yiddish. Molte delle sue poesie sono state tradotte da grandi poeti di lingua ebraica come Alterman, Shlonski, Leah Goldberg, Amir Gilboa. L’ultima antologia in ebraico, un volume di quasi 400 pagine è, come abbiamo detto, uscita nel 2004. Sutzkever è stato anche il primo scrittore in lingua yiddish a ricevere il prestigioso Pras Yisrael (1985) . A questo successo istituzionale non può accompagnarsi purtroppo un pari successo di pubblico, specialmente per le sue opere in originale, a causa del progressivo declino numerico dei parlanti yiddish in Israele con lo scomparire delle generazioni più anziane. Lo status dello yiddish in Israele infatti resta problematico anche dopo la fondazione di Israele e il definitivo consolidarsi dell’ebraico come lingua “vittoriosa”, e ciò fa sì che manchi una politica forte che favorisca la conservazione della lingua e della cultura yiddish tra le nuove generazioni.
Inoltre, se Sutzkever ottiene riconoscimento in Israele, è comunque da considerarsi un’eccezione. Lo yiddish e i suoi fedeli si trovano sempre più stretti tra l’incudine e il martello dei due opposti stereotipi: da una parte la Shoah, con tutte le complesse dinamiche di rimozione che per molto tempo hanno dominato gran parte della società israeliana, dall’altra la comicità macchiettistica di bassa lega di cui si diceva. Almeno due grandi romanzi sono stati scritti in ebraico negli ultimi anni su questo argomento, uno è Foygelman di Aharon Meged e l’altro è Notte dopo notte di Aharon Appelfeld che è stato pubblicato in traduzione italiana dalla Giuntina. Entrambi trattano del rapporto conflittuale e torbido tra yiddish e ebraico in Israele e dedicano una particolare attenzione alla figura del poeta yiddish. Attraverso le vicende dei protagonisti in entrambi i romanzi emerge ed è denunciato quello che sembrerebbe essere lo stereotipo del poeta yiddish per l’israeliano medio: uno scampato alla Shoah che invece di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e costruirsi una nuova vita in Israele resta attaccato al mondo scomparso e alla sua lingua, dà voce alla propria disperazione scrivendo poesie sicuramente mediocri, parla per proverbi e modi di dire, si riunisce con altri suoi simili per lamentare la triste condizione della mameloshn, la lingua madre defraudata dalla prepotenza dell’ebraico, e per ascoltare canzoni popolari melense e piagnucolose. Secondo Meged e Appelfed questo atteggiamento negativo della società circostante finisce per confinare gli amanti dello yiddish in una sorta di ghetto culturale dove imperversano i fantasmi del passato e la tendenza a folli derive. Nel romanzo di Appelfeld questo ghetto è rappresentato dalla pensione Precht di Gerusalemme, abitata esclusivamente da scampati alla Shoah per i quali lo yiddish è la lingua martire e quindi la vera lingua “santa”. Più santa dello stesso ebraico, come si vede dalle parole di due dei personaggi, non a caso due poeti yiddish. Leggo un breve brano tratto da Notte dopo notte:

Zeidel ha una grande fiducia nella parola scritta. Quando un termine o una frase gli suonano male, lui critica, discute e si arrabbia. Lo abbiamo già visto litigare perché un poeta aveva usato un termine ricalcato sul tedesco. Lo yiddish è una lingua sacra, è nostro dovere preservarne la purezza. Un solo vocabolo alterato può danneggiare non solo la poesia, ma anche l’animo di chi l’ascolta. Ancora più intransigente di lui è il poeta Shalom Schimmer, che abita a Tel Aviv. Schimmer sostiene che è proibito discorrere in yiddish. E’ permesso pronunciarne le parole, si può servirsene per pregare, ma non è dato usarlo come prima della guerra. Abbiamo trascorso molte notti dibattendo su questo argomento, come pure su molti altri. Alla fine è prevalsa l’opinione di Zeidel: parlare lo yiddish non è solo permesso, è un dovere, ma bisogna rispettarne la sintassi e la musica, ed è arrivato il momento di eliminare dalla lingua tutti i germanismi estranei e i luoghi comuni degli oratori: va inoltre pronunciato con chiarezza, senza omettere sillabe. Schimmer da parte sua continua a sostenere che al giorno d’oggi i ruoli si sono scambiati: l’ebraico deve essere usato per le necessità di tutti i giorni, e lo yiddish per la preghiera e lo studio .

Il destino scomodo del poeta yiddish è ovviamente ben chiaro a Sutzkever stesso, come si può vedere da una poesia del 1958 intitolata per l’appunto Un poeta yiddish:

Un poeta yiddish
Un degno poeta yiddish,
un uomo importante
mi appare
nel momento della divina opera della creazione e mi dice:
Ho già composto, in un momento favorevole,
l’epitaffio per la mia tomba,
sì, qui a Tel Aviv,
e tra cent’anni
voglio che sia scolpito
sulla mia lapide con la pazienza di chi sa dominarsi.
Mi dice il notaio:
no!
Se vuoi morire tranquillo,
senza nervosismo,
suona le corde dello Stradivari
usando la lingua ebraica.

Ahimè, in questo modo, da morto
attirerò una maledizione sulla mia vita!
Verrà un ebreo dall’America,
e deporrà i fiori
su qualcun altro,
e di me non si accorgerà affatto.
Dammi un consiglio, mi scoppia la testa, salvami!

E io gli risposi in modo chiaro:
è ormai tempo di ricordare
che a un poeta yiddish è vietato morire.

A giudicare da questa poesia si direbbe che sia molto più facile per un romanziere israeliano che scrive in ebraico parlare con autentico mitgefil, con vera empatia, di un poeta yiddish piuttosto che per chi è personalmente coinvolto. Meged e Appelfeld infatti, nel loro criticare l’incapacità della società israeliana di affrontare il proprio rapporto con lo yiddish e la sua cultura, tratteggiano figure di poeti yiddish in cui si percepisce una identificazione, da parte degli autori, molto più forte di quella che troviamo in questa poesia di Sutzkever, che, paradossalmente, è decisamente più ambigua. Sutzkever parla di un poeta yiddish, ma il poeta yiddish non è lui stesso. E’ un altro, un qualcuno che gli appare mentre è immerso nella “divina opera della creazione”. Dato che Sutzkever nella sua vita ha scritto quasi solo poesie in yiddish è abbastanza ovvio che anche nel momento in cui viene interrotto stia scrivendo una poesia in yiddish, ma – si direbbe – è proprio dall’etichetta di poeta yiddish corrente nella società dove vive che Sutzkever vuole in qualche modo prendere le distanze. Questo si vede dall’ironia, anche se bonaria, con cui descrive quello che a tutti gli effetti è un suo collega: un individuo un po’ esagitato, non immune da alcune note patetiche, un po’ una macchietta come lo è anche l’ampolloso notaio che pretende un epitaffio scritto in ivrit. Solo i due versi finali si allontanano da questo tono tra il distaccato e il divertito: è ormai tempo di ricordare / che a un poeta yiddish è vietato morire. Una conclusione amara in cui si coglie la consapevolezza che la lotta per lo yiddish è una lotta di singoli contro una società e delle istituzioni sostanzialmente indifferenti o ostili.
Alla luce di quanto si è detto sul poeta yiddish nella società israeliana non è strano che una delle qualità di Sutzkever su cui i critici si soffermano di più sia il suo “equilibrio”, e in particolare il suo equilibrio nella gestione del passato e del presente nella sua opera, ci vogliono infatti delle doti notevoli di equilibrista per scrivere poesie in yiddish senza diventare il topos del “poeta yiddish”, restando cioè semplicemente un poeta, e possibilmente un grande poeta.
Per quanto Sutzkever non sia stato l’unico a scrivere poesia yiddish in Israele, per quanto la prestigiosa rivista da lui diretta abbia offerto ospitalità a tantissimi scrittori in lingua yiddish, non si può essere immuni dall’impressione che egli sia in qualche modo l’ultimo “grande”. Nella prefazione a una delle diverse raccolte di poesie di Sutzkever in traduzione ebraica uscite negli anni, un volume pubblicato in occasione del cinquantesimo compleanno dell’autore, il critico Dov Sadan tratteggiava una breve storia delle generazioni di poeti yiddish che si sono succedute dagli esordi delle letteratura yiddish moderna fino agli anni 40 e dimostrava che ognuna di queste generazioni è stata messa in discussione, criticata in modo impietoso da quella successiva, solo Sutzkever è universalmente approvato, non ha contestatori. Queste parole, scritte nel ’64 come meritato elogio a una carriera di poeta, che già allora era decisamente corposa, lette oggi suonano un po’ come una triste profezia. Magari ci fosse una nuova generazione di giovani poeti yiddish pronti a contestare e a irridere il grande vecchio, di fatto sappiamo che non è così, perché purtroppo per produrre nuovi poeti non bastano le riviste letterarie, i saggi dei critici e gli insegnamenti universitari.

Bibliografia

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Vercelli, Claudio, Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze 2007.

Nella foto in alto: Avraham Sutzkever

Si veda anche:
La nuova poesia ebraica e la rinascita dell’ebraico
La relazione introduttiva alla giornata di studio tenuta a Milano il 12 maggio 2008 su “Sessant’anni di poesia israeliana”
di Ariel Hirschfeld

https://www.israele.net/sezione,,2117.htm