Balfour, Abu Mazen e la strategia di falsificare la storia

Lo spregio palestinese per i documenti ratificati dalla comunità internazionale mette in dubbio il valore di tutti gli accordi eventualmente raggiunti con loro

Di Zalman Shoval

Zalman Shoval, autore di questo articolo

Zalman Shoval, autore di questo articolo

L’annuncio fatto la scorsa settimana dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, attraverso il suo ministro degli esteri, che i palestinesi intendono citare in giudizio la Gran Bretagna per la Dichiarazione Balfour del 1917, può anche suscitare sogghigni e risate, ma – per parafrasare Shakespeare – c’è del metodo nella follia.

Dal momento che né la storia né il diritto sono dalla parte dei palestinesi nella loro battaglia contro Israele, il loro metodo preferito è quello di reinventare la storia con lo scopo di minare la legittimità degli accordi internazionali che contraddicono i loro obiettivi.

In questo senso, per loro la Dichiarazione di Balfour è particolarmente pericolosa, e non solo perché parla di una sede nazionale, dove l’accento è su “nazionale”, per il popolo ebraico in Terra di Israele/Palestina; ma anche perché essa parla della popolazione araba in quella terra in riferimento ai suoi diritti religiosi e civili senza alcuna menzione di eventuali diritti nazionali. Agli uomini di stato dell’epoca, inglesi e non solo (ad esempio, il campione del nazionalismo arabo, Feisal ibn Hussein), era perfettamente chiaro che gli arabi in quella parte dell’Impero Ottomano chiamata Palestina non avevano la storia di una nazione, e non ne avevano mai avuta una in passato.

La Dichiarazione Balfour, come è noto, ricevette l’avallo ufficiale della Società delle Nazioni e di altri strumenti internazionali. Ma al di là degli aspetti giuridici, essa rettificava un debito storico verso la nazione ebraica, come avrebbe affermato Winston Churchill nel 1949 quando disse: “La nascita di uno stato ebraico in Palestina è un evento della storia del mondo che va visto nella prospettiva non di una generazione o di un secolo, ma nella prospettiva di mille, duemila o addirittura tremila anni”.

Attaccare la Dichiarazione Balfour significa voler negare agli ebrei il diritto ad un loro stato su qualunque parte della Palestina/Terra d’Israele, come mostra coerentemente tutta la pubblicistica palestinese (nella figura: un poster di Fatah)

Naturalmente lo stato di Israele sarebbe sorto comunque, prima o poi, con o senza Dichiarazione Balfour, e Abu Mazen sa certamente che la fondazione dello stato di Israele non è stata semplicemente il risultato della Dichiarazione Balfour. Tuttavia, sollevare queste accuse contro la Balfour sul piano giuridico e storico ha lo scopo di dare maggior peso alla pretesa che la fondazione dello stato di Israele abbia in qualche modo rubato alla “nazione” palestinese la sua terra, la sua sovranità e il suo destino storico. E non si tratta solo di riscrivere la storia. Si tratta anche di una tattica concreta. Infatti, se viene scalzata la validità storica e legale della Dichiarazione Balfour, la logica conclusione è che gli ebrei non hanno diritto ad un loro stato su nessuna parte della “Palestina”, nemmeno nell’assetto “due stati per due popoli”. Questo concetto è l’unica vera ragione per cui Abu Mazen si rifiuta di intavolare veri negoziati di pace con Israele; la stessa per cui diversi capi arabi nel corso dei decenni hanno respinto tutti gli accordi e i compromessi offerti dallo stato di Israele, dagli organismi sionisti che hanno preceduto lo stato e da altri organismi internazionali.

Una delle lezioni che si dovrebbe trarre da tutto questo è che lo spregio dei palestinesi per gli accordi e i documenti internazionali mette in dubbio il valore di tutti gli accordi eventualmente raggiunti con loro. L’attacco alla Dichiarazione Balfour non è l’unico esempio di questa mendace strategia palestinese. Attualmente la loro dirigenza è impegnata anche nel tentativo di ottenere dalle Nazioni Unite la cancellazione di fatto della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: la chiave di volta giudica e diplomatica (su cui si sono basati i trattati di pace con Egitto e Giordania, nonché gli stessi Accordi di Oslo con l’Olp) che mette in primo piano l’importanza di stabilire confini “sicuri e riconosciuti”, vale a dire difendibili, e lo fa senza pretendere un ritiro israeliano da tutti i territori conquistati nella sua campagna difensiva nella guerra dei sei giorni del 1967.

Tutto questo non fa che confermare, agli occhi degli israeliani, la necessità di stabilire fatti sul terreno per prevenire le violazioni palestinesi degli accordi firmati e sanciti dalla comunità internazionale, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza.

(Da: Israel HaYom, 1.8.16)