Barack Obama nella mia città natale

Quasi metà degli ebrei d’Israele sono profughi da paesi arabi o musulmani

di Daniel Dagan

image_2511Quando il presidente degli Stati Uniti Barack Obama parlerà, giovedì al Cairo, tutto il mondo si metterà in ascolto per vedere come tratterà uno dei più gravi e annosi problemi che il genere umano si trova ad affrontare: l’irrisolto e mai attenuato conflitto fra un occidente prevalentemente cristiano e un oriente prevalentemente islamico.
Per parte mia, anch’io aspetterò un segnale che indichi se Obama si è accorto anche della mia storia particolare. E nel farlo, conto di capire se il presidente degli Stati Uniti stia realmente cercando la verità, o se vuole semplicemente un accomodamento basato su una narrazione fittizia che ignora le mia traversie.
A titolo di illustrazione, si consideri il felice incontro che ebbi pochi anni fa con il presidente egiziano Hosni Mubarak, quando stavo seguendo da inviato una visita ufficiale al Cairo del presidente tedesco Johannes Rau. Mi trovavo in coda al ricevimento, in una fila di pezzi grossi della politica ed ospiti illustri, nel palazzo di Mubarak al Cairo. Una stretta di mano di routine, qualche parola di saluto in arabo. Poi ho preso di sorpresa Mubarak dicendo che da bambino giocavo in quello stesso edificio. Ovviamente non mi credette, per cui infilai una mano in tasca e ne trassi il mio certificato di nascita. Mubarak lesse ad alta voce, in arabo naturalmente: “Nato al civico 1 di Via Ibrahim, Heliopolis, Cairo…”. Il presidente egiziano rimase quasi senza parole. “Via Ibrahim? La conosco, è appena dietro l’angolo. Dunque lei è cresciuto qui?”. “Esatto”, confermai. E gli raccontai che il quartier generale del suo regime un tempo si chiamava Heliopolis Palace Hotel ed era considerato la più bella residenza di tutta l’Africa. Quando ero bambino abitavo in quel quartiere e spesso giocavo in quell’edificio giacché il manager dell’hotel, il barone belga Empain, era un amico di famiglia. Spontaneamente Mubarak mi invitò a trattenermi in Egitto un po’ più a lungo e a tornare ancora (cosa che feci diverse volte). Al presidente tedesco Rau, che gli stava accanto, disse con trasporto: “Grazie per aver portato con lei un fratello egiziano”.
Durante quel breve incontro fui troppo garbato per reagire sul momento. Ma i decisivi eventi che ora s stanno svolgendo nella mia città natale mi offrono un’ottima occasione per porre una domanda diretta non solo a Mubarak e ad altri capi musulmani, ma anche ad Obama: quando parlate del problema dei profughi costretti a lasciare le loro case a causa del conflitto arabo-israeliano, come sicuramente farete anche giovedì, intendete tener conto di tutti i profughi colpiti da questo scontro tuttora in corso? Come mai finora non avete trovato il modo di menzionare quel milione di ebrei che dovettero fuggire dai paesi arabi e che trovarono una nuova casa in Israele? Come mai avete ignorato il destino di quelle grandi, antichissime comunità ebraiche che sono praticamente scompare da tutto il mondo arabo e islamico? Come mai non vi ricordate mai di me?
Per troppo tempo Israele è stato descritto come un complotto di immigrati occidentali che si sarebbero impadroniti di un paese straniero, in oriente, cacciandone la popolazione. Ma io sono israeliano, e vengo dall’oriente. E dunque so per certo che il mio caso non trova posto nella storia per come viene comunemente raccontata. E non sono certo l’unico. Quasi metà della popolazione ebraica di Israele è composta da profughi ebrei dai paesi arabi o musulmani. Tener conto delle loro traversie è una parte indispensabile di qualunque dibattito inteso a promuovere una composizione fra ebrei e musulmani, per non dire fra arabi e israeliani.
Un approccio rispettoso della verità è importante anche per affrontare altri problemi che molte nazioni islamiche si trovano di fronte; problemi che sono di gran lunga più gravi e urgenti del conflitto con Israele: povertà, arretratezza tecnologica, condizione della donna, diffuso abuso dei valori religiosi per promuovere la violenza. E sono certo che i consiglieri del presidente Obama sapranno aggiungerne qualche altro all’elenco.
Sono personalmente d’accordo con Obama sulla necessità di congelare le attività edilizie negli insediamenti in Cisgiordania. Ma non sono del tutto sicuro che la presenza di alcune centinaia di fanatici nei cosiddetti avamposti non autorizzati sia la ragione delle ambizioni nucleari manifestate dall’Iran. E non sono tanto convinto che l’operazione delle Forze di Difesa israeliane volta a fermare i lanci di razzi da Gaza renda conto davvero delle costanti violazioni dei diritti umani in gran parte del mondo musulmano, della ininterrotta tragedia nel Darfur, del recente sradicamento di due milioni di persone dalle loro case in Pakistan, e molto altro ancora.
Dunque, per appassionarmi – cosa che può decisamente fare – Obama dovrebbe decidere di abbandonare il testo preparato dai suoi speechwriter e dire agli ascoltatori alcune semplici verità circa lo stato del mondo islamico e i modi concreti per cercare un progresso.
E così giovedì mi aspetto di assistere a un’esperienza unica: la gloria dei faraoni dell’antico Egitto; l’incontro con un presidente auspicalmente abbastanza coraggioso da avviare un’analisi veritiera e dolorosa; e poi, a coronamento del tutto, un luogo familiare della mia infanzia: la vecchia, amata casa sul Nilo che fui costretto ad abbandonare.

(Da: Jerusalem Post, 2.06.09)

Nella foto in alto: Daniel Dagan, autore di questo articolo, corrispondete da Berlino della Israel Broadcasting Authority