Ben più che un semplice cambio di dirigenza

La leadership palestinese deve decidere se vuole restare attaccata alla sua missione originaria o cambiare radicalmente prospettiva

Di Jonathan Michanie

Jonathan Michanie, autore di questo articolo

La narrativa palestinese ha storicamente cercato di dipingere la propria società come interamente vittima dell’oppressione. Accusando falsamente Israele di essere un regime di apartheid, etichettando le tattiche di difesa israeliane come “omicidi indiscriminati” e gli attentatori terroristi palestinesi “per combattenti per la libertà”, l’Olp è riuscita a usare l’empatia come potente strumento per arrivare al tavolo delle trattative.

Ma con l’avvento del processo di Oslo iniziarono i veri guai. Fino al 1993, l’Olp aveva una chiara missione: liberare la Palestina (dall’esistenza di Israele). Ma quando su Yasser Arafat furono fatte sufficienti pressioni, a livello internazionale e regionale, perché firmasse gli accordi di Oslo e riconoscesse l’esistenza di fatto di Israele, ecco che sorse una minaccia esistenziale all’identità palestinese.

Il processo di mediazione era condannato a fallire sin dal momento in cui Oslo venne presentato alle parti. Il fatto che non dicesse nulla riguardo alla questione dei profughi, dei confini e della divisione di Gerusalemme e che non prevedesse scambi di territori impedì che le parti fossero costrette a prendere atto che non tutte le rivendicazioni potevano essere soddisfatte e che sarebbe stato necessario fare serie concessioni. In effetti si trattava solo di un documento simbolico che non affrontava le questioni cruciali intono a cui ruota il conflitto. Di più. L’accordo di Oslo rimuoveva l’aspetto storico e religioso del conflitto, tentando di affrontarlo come un contenzioso politico. Tutti questi fattori segnarono il destino del vertice di Camp David (del luglio 2000) ancor prima che le parti si sedessero a parlare. La verità è che la mediazione fallì a causa della crisi d’identità che continua a travagliare la società palestinese fino ad oggi.

Tutte le mappe del nazionalismo palestinese cancellano Israele dalla carta geografica. “Ora devono decidere se intendono cambiare agenda o rimanere attaccati alla loro missione originale”.

Saltiamo al 2008, quando si profilò imminente una seconda opportunità per il popolo palestinese di ottenere l’indipendenza statale. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) incontrò 30 volte il primo ministro israeliano Ehud Olmert per cercare di raggiungere un accordo di pace definitivo. Ma sebbene Olmert offrisse un completo ritiro dalla Cisgiordania, la capitale palestinese a Gerusalemme est e scambi di terre con territorio sovrano israeliano, Abu Mazen ripeté il delitto commesso da Arafat contro il suo stesso popolo. Attaccandosi alla rivendicazione di un totale insediamento dei profughi palestinesi e loro discendenti all’interno di Israele, una pretesa che sapeva bene essere irricevibile per Israele, Abu Mazen e la dirigenza palestinese riuscirono a sottrarsi nuovamente alla pace e al riconoscimento di un Israele ebraico.

Da allora Abu Mazen si è occupato più che altro di usare gli aiuti stranieri per foraggiare il terrorismo palestinese, istigare all’odio e usare la sua influenza politica per promuovere la guerra economica e diplomatica contro lo stato di Israele. Nel suo discorso più recente, Abu Mazen ha dichiarato: “Il colonialismo ha creato Israele per svolgere una precisa funzione: è un progetto coloniale che non ha nulla a che fare con l’ebraismo, ma piuttosto ha usato gli ebrei come uno strumento con lo slogan della Terra Promessa”. Un rifiuto totale.

Eppure il suo popolo continua ad aggrapparsi alla speranza di una vita più dignitosa e alla possibilità di svilupparsi. I sondaggi indicano che la maggioranza dei palestinesi di Cisgiordania vorrebbe che Abu Mazen si dimettesse. Le sfuriate politiche di Abu Mazen e del suo circolo non fanno che contribuire all’isolamento dell’Autorità Palestinese dalla comunità internazionale. La regione affronta conflitti ben più grandi. Una crescente sfera di influenza sciita si sta espandendo da Teheran al Mediterraneo e vanno formandosi alleanze inaspettate. La guerra civile siriana si sta avvicinando a una conclusione e l’incertezza continua a regnare in tutta la regione del Levante. La causa palestinese sta iniziando a svanire in mezzo ai grandi conflitti regionali. Il popolo palestinese lo capisce e non è più disposto a tenere in stallo il proprio futuro. Per i palestinesi, non solo è arrivata l’ora di cambiare agenda e dirigenza: è arrivata l’ora di cambiare radicalmente visione, a favore di una prospettiva che consista nel riconoscere i diritti del vicino ebreo, la riconciliazione e l’obiettivo della prosperità per tutti.

Il conflitto israelo-palestinese ha dimostrato di essere qualcosa di più che un semplice contenzioso su territorio o sovranità. La sua componente storica è imprescindibile e la mediazione, per il momento, è inutile. Nonostante le sue controverse politiche, legittimamente criticabili, Israele ha teso la mano di pace sin dal 1947. Con la Giordania e l’Egitto ha dimostrato la capacità di stringere accordi e di rispettarli fino all’ultimo centimetro. Finché la dirigenza palestinese non riuscirà a dimostrare altrettanto impegno per la pace e altrettanta capacità di affrontare l’inevitabile necessità di fare concessioni, il coinvolgimento di terze parti rimarrà sostanzialmente senza speranza.

La comunità internazionale avrà il compito di ripristinare il quadro storico del conflitto e rispondere alle richieste di entrambe le parti con proposizioni imparziali per un accordo stabile. L’Olp ha suscitato e alimentato il nazionalismo palestinese come contrapposizione al sionismo: un nazionalismo costruito sull’obiettivo non di ottenere uno stato (arabo palestinese) ma di eliminare uno stato (ebraico), di cancellare una pagina di storia tornando a prima del 1947 (o del 1917). Ora devono decidere se intendono cambiare questa agenda o rimanere sulla rotta della loro missione originale. Sia Arafat che Abu Mazen hanno negato l’indipendenza al loro popolo pur di restare attaccati all’obiettivo originario. Il vero impatto sui negoziati futuri non dipenderà tanto dal fatto se il prossimo leader palestinese sarà più o meno moderato, quanto da un loro radicale cambiamento di visione e di prospettiva verso la riconciliazione e la pace.

(Da: Jerusalem Post, 23.1.18)