Benjamin Netanyahu e il verdetto della storia

Il primo ministro israeliano è di nuovo al centro di elezioni anticipate, ma gli aspetti negativi della sua battaglia per la sopravvivenza politica stanno mettendo in ombra i suoi successi

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

A dare ascolto ai più accesi sostenitori del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, coloro che ne stanno preparando il necrologio politico stanno di nuovo sprecando il loro tempo. Se c’è una cosa che abbiamo imparato negli ultimi due anni, è che Netanyahu è una specie di mago politico che dà il meglio di sé quando viene messo alle corde. La domanda da porsi ora è se la sua lotta per rimanere al vertice finirà per mettere in ombra il carattere storico di tutto ciò che ha realizzato.

E’ dall’autunno 2018 che Netanyahu lavora coi giorni contati, da quando cioè la sua coalizione è andata in frantumi. Da allora, è uscito vincente da ben tre campagne elettorali e poi da otto mesi di un governo di coalizione fallimentare dove condivideva il potere con il suo principale rivale. In effetti il primo ministro è riuscito a tenere testa a ogni possibile configurazione di oppositori e a superare circostanze decisamente avverse, a cominciare dall’inaspettato disastro causato dalla pandemia mondiale, lavorando tutto il tempo sotto il peso delle incriminazioni per corruzione.

E non è che adesso l’obiettivo di sopravvivere politicamente gli sia diventato più facile. Israele entra nel terzo lockdown nazionale per cercare di fermare la diffusione del coronavirus, il che significa non solo che c’è stato un crescente numero di contagi e di decessi, ma che vi saranno ulteriori privazioni economiche e sempre maggiore frustrazione in una popolazione che fa sempre più fatica a sopportare un governo che la priva delle sue libertà e spesso dei suoi mezzi di sostentamento. Mentre Netanyahu si è guadagnato buoni voti per le sue capacità di gestione della crisi durante le prime fasi della pandemia, come nel caso di ogni altro governo del pianeta dopo di allora è inciampato più volte nell’affrontare il seguito e la ripresa di un guaio che non ha precedenti e che è tutt’altro che concluso.

Alle spalle del primo ministro Benjamin Netanyahu, i ritratti dei primi premier del paese: David Ben-Gurion, Moshe Sharett, Levi Eshkol, Golda Meir, Menachem Begin

Nello stesso tempo, le sfide politiche che deve affrontare sono diventate più complicate. Il modo in cui Netanyahu si è sbarazzato del Pprtito Blu-Bianco e del suo sfortunato leader, Benny Gantz, rappresenta un caso da manuale di virtuosismo politico, anche se l’ex capo di stato maggiore si è dimostrato un ingenuo, certamente non all’altezza della sua reputazione, quando si è trattato di battersi nell’arena politica e degli affari del governo. Ciò detto, il prossimo livello del gioco che attende il primo ministro sarà ancora più difficile. Nelle elezioni previste per il 23 marzo, i principali oppositori di Netanyahu saranno suoi ex compagni di destra ai quali non gli sarà tanto facile appioppare l’etichetta di deboli e inesperti (e di sinistra) come per Gantz. Allo stato attuale delle cose, in base ai sondaggi si può dire che la prossima Knesset sarà probabilmente composta da 80 o più parlamentari (sul totale di 120) associati a partiti chiaramente schierati a destra sulle questioni di difesa e sicurezza, o membri dei due partiti ultra-ortodossi che sono alleati del Likud. Il problema è che la metà o più di questi parlamentari saranno impegnati a far cadere Netanyahu.

Il pasticcio politico è iniziato due anni fa quando il partito Yisrael Beiteinu, di destra ma dichiaratamente laico, guidato da Avigdor Lieberman, ha abbandonato la coalizione di Netanyahu e si è impegnato a non sedere nello stesso governo con il primo ministro né coi partiti religiosi. Lieberman non è riuscito a essere l’ago della bilancia che aspirava a diventare, ma è rimasto fedele al suo impegno. Ora sarà affiancato sulle stesse posizioni dall’ex ministro del Likud Gideon Sa’ar con il suo partito Tikvà Hadashà (Nuova Speranza): altrettanto di destra sulle questioni diplomatiche e di difesa, ma anche altrettanto determinato a cacciare il primo ministro. Accanto a questi, a competere per i voti della destra vi sarà anche il partito pro-insediamenti Yamina (A destra), guidato da Naftali Bennett, che si è rafforzato stando all’opposizione ed è quindi in condizione di impallinare Netanyahu per gli insuccessi nella gestione del covid-19.

Stando ai sondaggi, il partito Blu-Bianco è crollato, il partito di centro-sinistra Yesh Atid (C’è un futuro) di Yair Lapid sembra improbabile che possa rappresentare una seria minaccia, mentre il resto della sinistra è decisamente marginalizzato. Dunque la destra dominerà la prossima Knesset, ma l’ipotesi che questo trio di ex amici consentirà docilmente a Netanyahu di rimanere al potere appare come una pia illusione. Non si tratta solo del fatto che l’audizione delle testimonianze nel processo per corruzione a carico di Netanyahu dovrebbe iniziare a febbraio. Anche se Netanyahu potrà ascriversi il merito del riuscito lancio della campagna di vaccinazione che fa intravedere la fine all’incubo covid, resta il fatto che un paese prostrato dalla pandemia potrebbe rivelarsi più stanco che mai della sua presenza. E’ sempre molto rischioso scommettere contro le sorti di Netanyahu, ma ora è diventato possibile immaginare un governo composto in gran parte da partiti di destra eventualmente guidato da qualcuno diverso da lui.

Ottobre 2018: storica visita in Oman del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ricevuto a Mascate dal sultano Qaboos bin Said

A primavera Netanyahu risulterà in carica da 12 anni. Ricordando il suo precedente mandato come primo ministro dal 1996 al 1999, e che era diventato leader del Likud già nel lontano 1993, non sorprende che così tanti siano stanchi della sua infinita lotta senza quartiere per rimanere al vertice. Le accuse di corruzione che Netanyahu deve affrontare in tribunale hanno contribuito ad appannare la sua immagine. Personalmente credo che queste accuse siano in buona parte ingiustificate, giacché costituiscono un tentativo di trattare come reati criminali diverse questioni che sembrano più che altro comportamenti inappropriati (accettare regali costosi) o che non sono tecnicamente illegali ai sensi della legge israeliana (cercare di persuadere aziende dei mass-media a garantirgli una copertura migliore). Tuttavia, esse riflettono la sensazione di impunità che aleggia intorno alla figura di Netanyahu. I suoi sforzi di tenere duro a fronte delle incriminazioni e di usare qualsiasi espediente per cercare di convincere la Knesset a garantirgli l’immunità rimangono un triste spettacolo, quand’anche meritasse d’essere assolto.

Non basta. La lista di defezioni di membri del Likud guidati da Sa’ar, che vanno ad aggiungersi agli altri non pochi ex collaboratori di Netanyahu diventati suoi avversari a capo di altri partiti, come Bennett e Lieberman, ci ricorda che il primo ministro non ha mai veramente cercato di crescere un successore. Anzi, non sembra credere al concetto stesso. Questo atteggiamento da “dopo di me il diluvio” non è solo un buon argomento a favore del porre dei limiti di tempo al mandato. Soprattutto non è un bel vedere per qualsiasi leader di una democrazia, anche se è un leader che non ha rivali per esperienza in diplomazia, sicurezza e questioni economiche, come è il caso di Netanyahu. L’aspetto triste di tutto questo è che mette in ombra il considerevole elenco di risultati storici ottenuti da Netanyahu.

24 maggio 2020: il primo ministro Benjamin Netanyahu all’apertura del processo a suo carico davanti alla Corte distrettuale di Gerusalemme

In questo senso Netanyahu è letteralmente vittima del proprio successo. Oltre a un ottima prestazione sulle questioni economiche, nel corso degli ultimi dodici anni il primo ministro ha dimostrato quanto fossero illusorie le idee della sinistra sui palestinesi. Ha dimostrato, con l’aiuto dell’amministrazione Trump, che l’accettazione di Israele da parte del resto del mondo arabo non deve per forza dipendere dall’accettare pericolose concessioni ai palestinesi. Sotto la sua guida Israele è diventato non solo più forte e più sicuro, ma anche meno isolato man mano che cresce l’elenco dei paesi che normalizzano le relazioni, così come le alleanze dietro le quinte intessute con altre nazioni. E questo, unito all’ostinato rifiuto dei palestinesi e al loro continuo terrorismo, ha portato fra l’altro alla disintegrazione dei partiti della sinistra israeliana.

Il che significa anche che il rischio di un governo di sinistra dipendente dai voti dei partiti arabi anti-sionisti, che sarebbe incline a piegarsi alle pressioni di una nuova amministrazione americana, non è così grande come nelle elezioni del 2009, del 2013 e del 2015. Israele ha senz’altro bisogno di parlare con una voce sola e autorevole con l’amministrazione Biden. Ma l’idea che Netanyahu sia l’unico in grado di resistere alle pressioni di Washington o di impedire scelte catastrofiche per la sicurezza del paese è minata proprio da ciò che Netanyahu ha ottenuto. I suoi avversari non lo ammetteranno mai, ma Netanyahu non è l’uomo che essi descrivono come esclusivamente interessato al potere e incapace di prendere decisioni importanti per il futuro del paese. Netanyahu merita senz’altro di figurare in un inventario dei più grandi leader del paese.

Ma la spinta sempre più pesante che comporta il suo aggrapparsi alla carica mette in ombra i suoi successi. In parte a causa di una stampa ostile, ma anche a causa della sua evidente abilità nel giocare una partita interna in cui tutti sanno che non mantiene la parola data, le sue straordinarie imprese passano in secondo piano. Perché Netanyahu veda riconosciuto il suo merito come grande statista può darsi che si debba attendere una futura generazione di storici non contaminati da pregiudizi né dalla cattiva impressione che fanno le sue tattiche politiche senza scrupoli.

Niente di tutto questo significa necessariamente che stia per arrivare alla fine del suo percorso. Ed è perfettamente possibile che ci voglia una quinta tornata elettorale entro la fine del prossimo anno per risolvere la situazione di stallo. Ma l’idea che Netanyahu possa continuare a governare Israele indefinitamente, nonostante la crescente lista di avversari implacabili e tutta la zavorra che lo appesantisce dopo essere stato così a lungo in carica, inizia a richiedere più un atto di fede che un’analisi razionale.

(Da: jns.org, 24.12.20)