Boicottaggio d’Israele: la libidine del rifiuto fine a se stesso

Ai boicottatori non interessa capire le vere motivazioni della maggioranza degli israeliani e dunque, in ultima analisi, sono del tutto inutili anche per i palestinesi

Di Haviv Rettig Gur

Haviv Rettig Gur, autore di questo articolo

BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) è un termine che indica in modo generico un insieme diversificato e spesso litigioso di attivisti e organi di stampa che guidano un gruppo di sostenitori più ampio, ma meno organizzato, caratterizzato da svariati gradi di coinvolgimento e militanza. Alcuni di questi movimenti sono apertamente e decisamente prevenuti e faziosi contro ebrei e Israele. Altri sono costituiti da liberal pieni di buone intenzionati che credono che questo sia l’unico modo per aiutare i palestinesi. Altri infine, come accade in tutti i movimenti politici, sono un mix di empatia ben intenzionata e pregiudizio ignorante.

Ma tutti questi gruppi condividono una caratteristica che li rende detestabili agli occhi degli israeliani e quindi, in ultima analisi, del tutto inutili per i palestinesi: non capiscono il punto di vista degli israeliani (e non ci provano nemmeno). Vorrebbero influenzare il comportamento degli israeliani mediante boicottaggi e sanzioni, ma non hanno la minima idea del motivo per cui gli israeliani si comportano come si comportano, e quindi di quale tipo di pressioni potrebbero essere efficaci per indurli a modificare quel comportamento. Non sanno che la maggior parte degli israeliani è favorevole, in linea di massima, al ritiro e alla separazione dai palestinesi, e non sanno che a partire dalla seconda intifada iniziata nel 2000 (quella delle stragi suicide nei luoghi pubblici scatenata dopo che Arafat aveva rifiutato l’offerta di pace Clinton-Barak), la maggior parte degli israeliani non crede più che la politica palestinese possa ricambiare con la pace un ritiro israeliano nel quadro del paradigma a due stati. Cioè, non sanno che gli israeliani si oppongono al ritiro perché ritengono che il vuoto che si lascerebbero alla spalle verrebbe riempito da soggetti come Hamas, Hezbollah e lo Stato Islamico.

Manifestazione per il boicottaggio di Israele in un campus americano. Sul cartello: “Di Israele, tutto è illegale”

Questo non è un argomento a favore di Israele da brandire nelle interminabili schermaglie retoriche fra opposti attivisti, per lo più on-line. Si tratta di una realtà psicologica cruda e viscerale, destinata a influenzare il futuro dei palestinesi in fatto di benessere, sviluppo e libertà. La maggior parte degli israeliani ritiene che la vita dei loro figli sia letteralmente e direttamente minacciata dall’affrancamento dei palestinesi. Più esattamente, che la vita stessa dei loro figli sia minacciata molto più da tale affrancamento che non dalla continua gestione del conflitto di basso livello che l’occupazione comporta. Non esiste condanna diplomatica né sceneggiata per strada o su internet che possa scalfire questa convinzione e questa paura degli israeliani, costantemente confermata e corroborata dalla retorica che imperversa in campo palestinese e dalla azioni violente di Hamas e di altri gruppi importanti, nonché dall’esperienza concreta del ritiro dal Libano meridionale nel 2000 e dalla striscia di Gaza nel 2005.

Il punto, qui, non è discutere se questo punto di vista della grande maggioranza degli israeliani sui pericoli che il ritiro comporta sia corretto o meno. Il punto veramente importante, qui, è che la soglia di pressione degli israeliani non ha niente a che vedere con quella che il movimento BDS, nella sua ignoranza, si immagina. La soglia non è determinata dall’iper-nazionalismo d’Israele, dal suo razzismo o da qualunque altro spregevole e fittizio -ismo gli si voglia attribuire. Questi sono elementi che si ritrovano in alcuni ambienti della società israeliana come in qualsiasi altra società al mondo. Il perdurante rifiuto degli israeliani di procedere con quel ritiro che pure in tutti i sondaggi dicono di sostenere è dovuto a una preoccupazione molto più profonda, potente e radicata.

Non esiste condanna diplomatica né sceneggiata per strada o su internet che possa scalfire la preoccupazione degli israeliani per la vita dei loro figli, costantemente confermata dalla propaganda che imperversa in campo palestinese

Il fatto che il movimento BDS non capisca queste cose circa gli israeliani fa ben poca differenza per gli israeliani, ma è fondamentale per la strategia e gli scopi degli stessi attivisti BDS. Un boicottaggio, per definizione, è il tentativo di fare breccia nella psicologia dell’avversario per indurlo a una nuova percezione dei costi causati dai suoi comportamenti che si vogliono modificare. Il boicottaggio di Israele sarà un successo o un fallimento non in base a quello che gli attivisti BDS credono che sia il vantaggio di Israele nel mantenere il controllo sulla Cisgiordania, ma in base ai vantaggi che gli israeliani ritengono di trarne. Se, dunque, gli israeliani ritengono che sia in gioco la sicurezza e la vita stressa dei loro figli, che effetto potrà mai avere un boicottaggio economico? Forse che gli attivisti BDS rischierebbero la sicurezza e la vita dei loro figli solo per sottrarsi a qualche svantaggio economico o alla cancellazione dello show di qualche cantante?

Questa, agli occhi degli israeliani, è la schiacciante verità dietro al movimento BDS. Se un movimento per il boicottaggio non è guidato da un minimo tentativo di capire la psicologia e le motivazioni del suo obiettivo, allora da cosa è guidato?

L’israeliano comune sente parlare di BDS soprattutto dai suoi stessi politici, giacché i boicottatori non si prendono la briga di rivolgersi agli israeliani e quindi non hanno alcun controllo su come i loro sforzi vengono presentati agli soggetti del loro sacro sdegno. In effetti, gli attivisti BDS sembrano beatamente indifferenti al fatto che tutta la loro strategia dovrebbe basarsi su come gli israeliani li percepiscono. Visto l’enorme divario tra la strategia dichiarata dal movimento BDS e le conoscenze e le azioni che dovrebbe intraprendere per attuare quella strategia, gli israeliani hanno la netta sensazione che l’intera impresa non sia altro che un esercizio di faziosità e intolleranza.

Se i metodi degli attivisti BDS non possono realmente cambiare il comportamento degli israeliani, se la loro totale mancanza di empatia e di interesse circa il loro avversario li priva della capacità di capire lo loro stessa strategia, allora che utilità potranno mai avere per i palestinesi?

Nell’ignoranza dei BDS si svela ancora una volta la vera e più profonda sventura dei palestinesi, quella che sta alla base dello squilibrio con Israele: la loro continua riluttanza a fare i conti seriamente e strategicamente con il fatto, duro e spiacevole, dell’esistenza e persistenza di Israele.

La battaglia tra Israele e BDS è una di quelle finzioni politiche che hanno senso solo se non le guardi troppo da vicino. In fin dei conti, il movimento BDS combatte un Israele che esiste solo nella sua immaginazione. Il BDS non è abbastanza curioso, non è abbastanza serio, o forse è semplicemente troppo intrinsecamente prevenuto per affrontare la sfida molto più difficile di cercare di influenzare davvero la società autentica e viva i cui comportamenti sostiene di voler modificare. Qui non si tratta di difendere la moralità di ciò che fa Israele. Quand’anche Israele fosse davvero cattivo come sostiene il BDS, o persino peggio, ciò non cambia il punto: il movimento BDS non è realmente interessato a ciò che motiva il comportamento degli israeliani, altrimenti studierebbe le strategie giuste per cercare di cambiarlo. Quindi il movimento BDS è solo un esercizio il cui scopo ultimo è il boicottaggio stesso. Non persegue riforme politiche, ma l’ostracismo e il rifiuto in sé e per sé: una risposta permanente a un nemico considerato perfido per natura.

(Da: Times of Israel, 24.1.18)