Braccio di ferro fra palestinesi sul “documento dei detenuti”

Un testo di mediazione fra le diverse fazioni, che tuttavia resta molto distante dalle richieste minime della comunità internazionale

M. Paganoni per Nes n. 6, anno 18 - giugno 2006

image_1267L’idea del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di indire un referendum sul cosiddetto “documento dei detenuti palestinesi” (che, salvo sorprese, dovrebbe tenersi il 26 luglio) viene universalmente considerata una mossa audace e brillante. E probabilmente è entrambe le cose, perlomeno sul piano dell’aspra lotta di potere in corso fra la presidenza palestinese, che fa capo a Fatah, e il governo controllato da Hamas. Come ha scritto Danny Rubinstein (Ha’aretz, 29.05.06), non è esagerato affermare che, da quando ha perso le elezioni parlamentari dello scorso gennaio, questa mossa segna il primo vero successo di Abu Mazen, e le scomposte reazioni di Hamas sembrano confermare tale diagnosi.
Altro è affermare che quel documento, eventualmente fatto proprio dall’Autorità Palestinese con o senza referendum, rappresenterebbe un passo decisivo verso la pace con Israele. Per valutare la cosa, è necessario innanzitutto esaminare il testo.
Il “Documento per la riconciliazione nazionale”, elaborato ai primi di maggio da un gruppo di leader palestinesi reclusi in un carcere israeliano per reati di terrorismo, rappresenta un testo di compromesso sul quale, nelle intenzioni, avrebbero dovuto convergere tutte le fazioni palestinesi nello sforzo di superare le lacerazioni interne degli ultimi mesi. La sua forza iniziale nasceva dal fatto che l’11 maggio Marwan Barghouti (leader delle milizie Tanzim di Fatah protagoniste della cosiddetta seconda intifada, all’ergastolo in Israele per diretto coinvolgimento nel terrorismo) era riuscito a raccogliere in calce al testo la firma non solo di leader detenuti del Fronte Popolare e del Fronte Democratico, ma anche quelle – peraltro ritirate un mese più tardi – di due autorevoli esponenti di Hamas e Jihad Islamica, anche loro in carcere per terrorismo.
Qual era dunque questo punto di mediazione fra le diverse correnti palestinesi? Il documento – un testo complesso, suddiviso in 18 paragrafi, a tratti assai contorto – esordisce affermando che lo scopo della lotta è “liberare la terra palestinese” e, in questo contesto, contempla la possibilità di creare uno stato indipendente su tutti i territori occupati nel 1967, con capitale Gerusalemme (§ 1). Prosegue poi ribadendo il cosiddetto “diritto al ritorno” (di tutti i profughi palestinesi e loro discendenti all’interno di Israele anche dopo la nascita di uno stato palestinese; § 1 e 9), e ribadendo il ricorso alla lotta armata “con ogni mezzo e in ogni forma” (§ 3 e 10) come strumento irrinunciabile per conseguire gli obiettivi palestinesi accanto all’azione politica e diplomatica. Il documento afferma infine – e questo è forse uno dei punti più problematici per le fazioni islamiste – che Hamas e Jihad Islamica devono entrare a far parte dell’Olp, definita “unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese” (§ 2), ripudiando dissensi e frazionismi nonché l’uso delle armi nel risolvere le dispute interne palestinesi (§ 14).
La prima considerazione da fare è che questo testo, quand’anche venisse approvato da tutte le rappresentanze palestinesi, non risponde alle richieste poste al governo Hamas dalla comunità internazionale, e in particolare dal Quartetto Stati Uniti-Unione Europea-Russia-Onu, come premesse minime per riavviare finanziamenti e negoziati, e cioè: riconoscimento di Israele, ripudio della violenza, rispetto degli accordi firmati.
Innanzitutto il “documento dei detenuti” non ripudia affatto la violenza, sollecitando anzi la creazione di un Fronte della Resistenza Palestinese che diriga in modo unificato la “lotta armata” contro gli israeliani – indifferentemente civili e militari– in Cisgiordania e striscia di Gaza (§ 10). A questo affianca la richiesta di scarcerazione incondizionata di “tutti i prigionieri e detenuti” palestinesi (§ 1 e 8) senza alcuna distinzione di rischio e di reato.
In secondo luogo non riconosce, e per la verità non nomina nemmeno, gli accordi di Oslo: con molta buona volontà si potrebbe discernere una timida allusione al riconoscimento degli accordi già firmati fra Israele e palestinesi solo nel § 5, dove si chiede “il rispetto della costituzione provvisoria della Autorità Nazionale Palestinese e delle leggi vigenti”. Ma l’ambiguità istituzionale non viene sciolta dal momento che il testo fa sempre riferimento all’Autorità Palestinese “sia in quanto Presidente sia in quanto Governo” (§ 4, 8 e 13), riconoscendo pari legittimità alla posizione di Fatah (presidenza) e a quella di Hamas (governo).
Infine, il “documento dei detenuti” non parla mai di riconoscimento del diritto ad esistere di Israele come stato degli ebrei. Anzi, in tutto il testo Israele viene esplicitamente menzionato soltanto come artefice di piani e aggressioni anti-palestinesi, mentre viene ostinatamente ribadito il cosiddetto “diritto al ritorno”, vale a dire l’intramontabile minaccia di “invasione demografica” di Israele, concettualmente e politicamente incompatibile con la soluzione “due popoli-due stati”.
In realtà il documento, indicando l’obiettivo di creare uno stato in Cisgiordania e Gaza, quello che fa è cercare di portare Hamas sulle posizioni elaborate dall’Olp nel 1974, quando adottò il famoso “piano a fasi” che impegnava i palestinesi a istituire, grazie alla “lotta armata”, una “autorità nazionale indipendente e combattente su qualunque porzione di territorio palestinese liberato” (art. 2 della risoluzione strategica del XII Consiglio Nazionale Palestinese, Cairo, 9.06.74). Per poi proseguire la lotta contro Israele, usando come base il territorio indipendente (artt. 4 e 8) e cercando di coinvolgere i paesi arabi confinanti in una nuova conflagrazione generale che portasse alla definitiva distruzione di Israele (art. 8). “La triste verità – ha notato Saul Singer sul Jerusalem Post (8.06.06) – è che, in termini palestinesi, questo è considerato un progresso”.
L’eventuale successo di Abu Mazen nel braccio di ferro innescato con Hamas attorno al “documento dei detenuti” significherebbe sicuramente un segnale positivo, nella misura in cui rafforzerebbe la posizione di Abu Mazen che oggi impersona l’ala più pragmatica e dialogante del movimento nazionale palestinese. A maggior ragione sarebbe di grande significato un’eventuale conferma del documento attraverso un referendum popolare che indebolirebbe gli oltranzisti usciti vincitori dalle elezioni dello scorso gennaio. Ma non si tratta comunque di un documento in grado di rassicurare gli israeliani sugli obiettivi strategici dei palestinesi, e sui loro “metodi di lotta”.
“Il documento viene dibattuto fra palestinesi più che altro come un mezzo per sottrarsi all’embargo internazionale – ha detto il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni alla Associated Press (11.06.06) – e forse, come processo, può anche portare a qualche risultato positivo. Ma il testo in se stesso non contiene alcun messaggio storico per la rappacificazione con Israele, ed è lungi dal corrispondere alle richieste minime della comunità internazionale. Noi desideriamo negoziare con Abu Mazen, ma non è realistico perseguire la pace con lui finché al potere resta Hamas così come è oggi”.

Nella foto in alto: il primo ministro dell’Autorità Palestinese Ismail Haniyeh (Hamas) nel suo ufficio a Gaza. Alle sue spalle, il ritratto del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Vedi anche:
Hamas e il piano saudita

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