Buongiorno, New York Times!

C’è voluto quasi un decennio perché finalmente il giornale afferrasse ciò che molti israeliani temevano dopo Oslo.

Di Yoel Marcus

image_310Ho letto e riletto il recente editoriale del New York Times che sollecita le dimissioni di Arafat e non ho potuto fare a meno di dirmi: “Buongiorno, New York Times”.
C’è voluto quasi un decennio perché finalmente questo giornale afferrasse ciò che molti israeliani temevano dopo Oslo: che Arafat non fosse capace di fare il passaggio da leader di un movimento di liberazione a leader di uno stato in fieri, con tutto lo status e le responsabilità che ciò comporta.
Scrive il New York Times: “La vera disgrazia per i palestinesi è stata quella di restare attaccati ad Arafat come loro padre fondatore, un leader che non ha saputo mutarsi da romantico rivoluzionario in uomo di stato. Tutto ciò che oggi Arafat sembra in grado di offrire ai palestinesi è una forma di martirio collettivo che egli sembra bramare… Che le terre palestinesi siano in totale rovina, che i frutti degli accordi di Oslo siano a brandelli sembra non importargli. La sua automatica insistenza sull’idea che tutto questo sia esclusivamente colpa dei ‘sionisti’, dell’occidente, di altri arabi è francamente insostenibile. Arafat stesso ha una grossa fetta di responsabilità per queste disgrazie”.
Il voltafaccia del New York Times ha dato davvero l’ultimo colpo al declinante prestigio di Arafat. Pochi giorni fa l’inviato dell’Onu Terje Roed-Larsen lo ha incolpato per il collasso dell’Autorità Palestinese. Il segretario di stato Usa Colin Powell lo ha definito un maestro nella retorica opportunista. Arafat, con tre opinioni diverse su ogni argomento unite a un buon grado di doppiezza, è un campione nel farsi beffe della gente. Non ha mai rispettato un accordo e ha snobbato ogni possibile offerta di compromesso. Clinton, Bush e ora John Kerry sono uniti nella convinzione che egli rappresenti un ostacolo alla pace. Persino Shimon Peres ha detto al rappresentante della politica estera della UE Javier Solana che Arafat è un lunatico.
Anche all’interno dell’Autorità Palestinese viene severamente redarguito. Hanan Ashrawi lo ha fato a pezzi su un giornale svizzero, dicendogli di andarsene a casa e che “è ora che ponga fine al suo show solitario”. Il dottor Ibrahim Hamami, un eminente medico palestinese, dice che Arafat è diventato una peso per il suo stesso popolo. “Tratti i palestinesi come un paio di scarpe –scrive Hamami – da indossare e gettare da parte secondo l’umore. La soluzione è che tu faccia i bagagli, prenda con te i tuoi mascalzoni compari e te ne vada da qualche altra parte. Semplicemente, vattene via di qui”.
Molte volte, da quando Arafat venne in Israele come un super-premiato uomo di pace, impegnato nella costruzione di uno stato palestinese, mi sono domandato su queste colonne come mai, sin dal momento in cui ha messo piede qui, si sia messo a incitare la sua gente alla guerra e al terrorismo. Non gli è mai venuto in mente che lo stato palestinese sarebbe sorto oppure naufragato sulla questione del terrorismo? Cosa pensava, il premio Nobel per la pace? Che gli accodi di Oslo gli dessero licenza di terrorizzare questo paese e versare sangue di israeliani?
Fin dal suo primo giorno qui, fu evidente che Arafat era affetto da una forma di schizofrenia. Non era capace di decidere cosa essere: il capo di uno stato in formazione, un capobanda terrorista o un giramondo? Si è costruito attorno un regime in stile mafioso, con la banda che si era portato dalla Tunisia. Ha mantenuto il controllo delle cose corrompendo, torturando gli oppositori, sbattendo fuori i rivali senza tanti complimenti.
Non intendo minimizzare il ruolo di Israele, con il suo ricorso eccessivo alla forza contro l’Autorità Palestinese e le estese distruzioni che ciò ha comportato. Ma c’è stato un momento, lungo questo periodo, in cui ci siamo resi conto che non ne potevamo più di vivere anno dopo anno fra gli artigli del terrorismo stragista.
Ci fu un tempo in cui Clinton e Barak offrirono ad Arafat il 97% dei territori. La risposta di Arafat fu l’intifada Al Aqsa, che ha mietuto migliaia di vite. Ora Israele si appresta a lasciare la striscia di Gaza. Ma Arafat, dentro la Muqata, è tutto impegnato a sabotare l’inizio del ritiro israeliano dai territori, trascinando il suo popolo in un abisso di disperazione.
“Occupazione” non è una specie di parola magica che condona tutto il resto. Un tempo anche Israele era sotto occupazione, l’occupazione britannica. I nostri leader si batterono contro i britannici, e i britannici reagirono con durezza: arrestavano, esiliavano, sparavano e impiccavano. Ma la lotta non impedì ai nostri leader di edificare le infrastrutture necessarie per il giorno in cui lo stato sarebbe nato. Arafat non solo non ha edificato niente, ha anche spinto la maggioranza degli israeliani sulle posizione dei falchi. Non si sa cosa sia peggio.
Oggi Arafat si trova nel classico stallo dei dittatori. Appena si indebolirà, i palestinesi si rivolteranno contro di lui. Il che significa che egli si aggrapperà disperatamente al potere, finché il troppo sarà troppo e i palestinesi (e soltanto i palestinesi: non Israele, per carità!) troveranno il coraggio di chiudere i conti e buttarlo fuori.
Ora hanno il permesso persino del New York Times.

(Da: Ha’aretz, 30.07.04)