È cambiato il mufti, non è cambiata la volontà genocida

Quando Husseini faceva davvero ciò che oggi predica il suo successore Hussein.

Di Petra Marquardt-Bigman

image_3349

Il mufti palestinese Haj Mohammed Effendi Amin el-Husseini con Adolf Hitler, Heinrich Himmler e le SS musulmane

Quando lo sceicco Muhammad Hussein, mufti di Gerusalemme, la più alta carica religiosa nell’Autorità Palestinese, durante una recente cerimonia in occasione del 47esimo anniversario della creazione di Fatah ha declamato un testo della tradizione islamica che esorta i musulmani a “combattere e uccidere gli ebrei”, senza volerlo ha svelato quanto poco siano cambiati i messaggi dei leader religiosi palestinesi sin dai tempi di un altro mufti di Gerusalemme, che di nome faceva Husseini. Questa deplorevole continuità retorica serve anche a farci opportunamente ricordare che le parole di solito vengono pronunciate per ispirare le azioni.
I palestinesi, imitati con entusiasmo da molti loro sostenitori in giro per il mondo, amano sostenere di non aver avuto alcun ruolo nella Shoà e di considerarsi pertanto vittime indirette degli ebrei in fuga dall’Europa. Questa “versione”, particolarmente popolare fra le élite progressiste europee, richiede che vengano completamente ignorati i trascorsi storici di Amin al-Husseini, il predecessore dell’attuale mufti palestinese.
Se è vero che entrambi i mufti hanno invocato l’uccisione degli ebrei, va ricordato che Husseini cercò e colse l’opportunità per contribuire concretamente all’impresa genocida nazista volta ad assassinare il più alto numero possibile di ebrei. Recensendo un libro di Klaus Gensicke sul collaborazionismo di Husseini, John Rosenthal sottolinea che il mufti non collaborò con i nazisti soltanto sul piano dell’attività di propaganda rivolta al pubblico di lingua araba, ma anche organizzando in Bosnia la divisione di SS musulmane “Handzar”. In effetti, la scoperta più scioccante della ricerca di Gensicke riguarda i ripetuti sforzi che fece il mufti dopo il 1943 per assicurarsi che nessun ebreo d’Europa sfuggisse ai campi. Così, ad esempio, il piano bulgaro inteso a permettere che emigrassero in Palestina circa 4.000 bambini ebrei e 500 loro accompagnatori adulti spinse il mufti a scrivere una lettera al ministro degli esteri bulgaro per chiedere di bloccare l’operazione. Nella lettera, datata 6 maggio 1943, Husseini evocava un “pericolo ebraico per il mondo intero e specialmente per i paesi dove vivono degli ebrei”. Una settimana più tardi, il mufti mandava altre “lettere di protesta” ai ministeri degli esteri sia tedesco che italiano, pregandoli di intervenire in materia. Il ministero tedesco inviava immediatamente un cablogramma all’ambasciatore tedesco a Sofia in cui si sottolineava “il comune interesse tedesco e arabo ad impedire l’operazione di salvataggio”. In verità, stando alle memorie nel dopoguerra di un funzionario del ministero degli esteri, “il mufti si presentò dappertutto ad inscenare proteste: nell’ufficio del ministro, nell’anticamera del viceministro e in altri dipartimenti come gli interni, l’ufficio stampa, il servizio radiodiffusione ed anche dalle SS”. “Il mufti – concludeva il funzionario – era un nemico giurato degli ebrei e non faceva mistero del fatto che avrebbe voluto vederli tutti uccisi”. Alla fine di giugno, i ministri degli esteri rumeno e ungherese ricevettero appelli analoghi da parte del mufti. Il governo rumeno aveva intenzione di permettere a 75-80.000 ebrei di emigrare in Medio Oriente, mentre l’Ungheria, che era diventata il rifugio di ebrei fuggiti dalle persecuzioni in altre parti d’Europa, pare che si apprestasse a lasciare emigrare in modo analogo 900 bambini ebrei coi rispettivi genitori. Anche in quell’occasione il mufti ebbe a ribadire il suo parere: che gli ebrei venissero mandati piuttosto in Polonia, dove sarebbero stati sotto “efficiente sorveglianza”. “E’ particolarmente atroce – conclude Gensicke – il fatto che el-Husseini si opponesse anche a quei pochissimi casi in cui i nazisti sembravano disposti, per un qualsiasi motivo, a lasciar emigrare un gruppo di ebrei. Per lui, solo la deportazione nei campi in Polonia era accettabile, giacché sapeva perfettamente che là, per loro, non vi sarebbe stato scampo”.
Qualcuno necessariamente tenderà a pensare che Husseini, quando impediva l’immigrazione di ebrei dall’Europa, stava solo difendendo gli interessi nazionali degli arabi palestinesi. Ma, come ha dimostrato Gensicke, Husseini era davvero convinto che vi fosse un “pericolo ebraico per il mondo intero e specialmente per i paesi dove vivono degli ebrei”, come scrisse nella sua lettera del maggio 1943. Pochi anni dopo, i regimi arabi si sarebbero impegnati a dimostrare quanto condividevano la sua opinione. La Lega Araba varò delle leggi in stile Norimberga volte a privare gli ebrei dei diritti civili e ad espropriarli, mentre gli stati arabi iniziavano a promuovere una vera e propria pulizia etnica delle antiche comunità ebraiche che esistevano da millenni in tutto il Medio Oriente. Centinaia di migliaia di ebrei, costretti a fuggire dai paesi arabi, trovarono rifugio nel giovane stato ebraico che gli arabi avevano giurato, e tentato, di spazzare via. A quel tempo le motivazioni potevano essere fatte risalire al nazionalismo arabo; ma, come hanno chiarito le recenti dichiarazioni del mufti palestinese, nell’Islam esiste una lunga e – per dirla con le sue parole – “nobile” tradizione di odio anti-ebraico, regolarmente invocata fino ai nostri giorni per inserire il rifiuto arabo e palestinese dell’esistenza di Israele come stato ebraico nel quadro di una lotta contro gli ebrei che fa parte integrante dell’identità islamica.
Oggigiorno la retorica anti-ebraica in stile nazista trova espressione soprattutto in arabo e in persiano. E proprio come settant’anni fa, vi è una diffusa riluttanza a confrontarsi con questa propaganda e ad affrontare il fatto che essa è volta ad aizzare concreti comportamenti omicidi.

(Da: Jerusalem Post, 27.1.12)