Caos, ovvero: il nuovo status quo in Medio Oriente

Inutile logorarsi continuamente sulla falsa dicotomia fra “democrazia liberale” e “teocrazia islamica”.

Di Aymenn Jawad Al-Tamimi

image_3365A un anno dalla cacciata di Hosni Mubarak da presidente dell’Egitto, quali conclusioni si possono trarre circa l’ondata di disordini in corso in Medio Oriente e Nord Africa? In questo periodo, un anno fa, alla Conferenza di Herzliya lo storico israeliano Martin Kramer biasimava l’amministrazione Obama per aver adottato l’idea che lo “status quo” nella regione non fosse più sostenibile, spingendosi sino ad accusare il governo degli Stati Uniti d’aver “gettato Mubarak alle ortiche”. Ma già allora le critiche di Kramer erano fuori luogo per il fatto che lo “status quo” – vale a dire, l’ordine apparentemente stabile imposto da uomini forti che prevaleva in Medio Oriente e Nord Africa prima dello scoppio della cosiddetta “primavera araba” – in realtà non è mai stato sostenibile. L’agitazione che è sopraggiunta e che ora caratterizza la regione può essere paragonata ad uno tsunami: semplicemente inarrestabile. Gli Stati Uniti non avrebbero potuto salvare Mubarak più di quanto il presidente francese Nicolas Sarkozy avrebbe potuto salvare l’ex dittatore tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, che pure il governo francese avrebbe visto volentieri restare al potere anche quando in Tunisia eruppero le proteste di massa. Formulando il concetto che l’amministrazione Obama ha gettato Mubarak “alle ortiche”, Kramer non ha fatto che riecheggiare involontariamente il pensiero e l’eredità intellettuale di uno studioso che egli ha giustamente preso di mira nel suo libro “Torri d’avorio sulla sabbia”, e cioè Edward Said. Gli scritti di Said – specie il suo famoso “Orientalismo” – hanno malauguratamente divulgato la visione paternalistica secondo cui nel mondo arabo la responsabilità per ciò che va storto e quella di rimettere a posto le cose ricade sempre e solo sulle spalle delle potenze occidentali. Ciò che ha portato alle dimissioni di Mubarak in Egitto non è stato il fatto che gli Stati Uniti lo avessero in qualche modo abbandonato, bensì il fatto che i militari egiziani, sentendo sul collo il fiato delle proteste di massa, hanno attuato un colpo di stato “de facto”. Lo stesso vale per Ben Ali in Tunisia, anche se in questo caso i militari hanno poi scelto di ritrarsi dalla politica.
In ogni caso, un problema assai frequente nelle analisi sugli sviluppi in corso nel mondo arabo è la tendenza a imporre false dicotomie. Ad esempio, sul tema del futuro dell’Egitto è stato versato fin troppo inchiostro nel chiedersi se il paese ne uscirà come un vero e proprio stato islamico o come una sana democrazia. In realtà, bisogna ormai rendersi conto che nella regione sta prevalendo un nuovo paradigma: il caos. Troppo spesso i commentatori, nelle loro analisi sulle più probabili tendenze attuali e future trascurano demografia, economia, affiliazioni tribali e cambiamenti del clima. Ad esempio, in Egitto le proteste in corso in Piazza Tahrir hanno portato a una brusca frenata dell’economia. Oltre al considerevole calo nelle entrate da turismo e agli scioperi devastanti, vi sono le tribù beduine che causano grossi problemi nel Sinai, dove alla fine del mese scorso si sono addirittura impadronite del complesso vacanziero Aqua Sun – sino a poco tempo fa una delle mete preferite dai turisti israeliani – pretendendo un riscatto di 660.000 dollari. Più in generale, con una popolazione di 80 milioni di abitanti in rapida crescita e concentrata attorno al Nilo in un’area che è solo due volte e mezza la superficie di Israele, e con i partiti politici totalmente divisi su come risolvere la crisi economica che la nazione deve fronteggiare, gli egiziani continueranno ad essere facile preda della rabbia, avendo capito che il rovesciamento di Mubarak non ha apportato alcun reale miglioramento nella qualità della vita: il che innescherà un circolo vizioso di ulteriori agitazioni.
Analogamente pochi hanno notato che la Siria, in caso di caduta del regime di Bashar Assad, sembra destinata ad affrontare un disastro di tipo maltusiano. Il cuore sunnita del paese rischia di soccombere alla pressione demografica e ambientale che ha contribuito sin dall’inizio ad innescare la rivolta. La politica tradizionalmente pro-natalista del governo ha fatto sì che le periferie della Siria sotto dominazione tribale abbiano conosciuto una rapida crescita della popolazione, specialmente fra le tribù armate di Deir ez Zor, dove si trova la maggior parte delle decrescenti riserve di petrolio del paese. Con l’uscita di scena di Assad, sicuramente queste tribù reclameranno la loro parte di introiti petroliferi, innescando potenzialmente un altro conflitto “periferia contro il centro” come quelli che hanno caratterizzato fin qui gran parte delle rivolte nel paese. Non basta. Gli slum suburbani delle maggiori città siriane brulicano di centinaia di migliaia di migranti sfollati a causa di cambiamenti climatici e di gravi carenze idriche: mezzo milione di persone sono sfollate dalle aree abitate dalla tribù Inezi, nella Siria orientale, a causa della siccità dovuta a mutamenti nell’andamento delle precipitazioni. Per lo stesso motivo, nel periodo 2007-2008 erano stati abbandonati 160 villaggi nella Siria settentrionale. Tutto questo accresce significativamente la possibilità che il paese finisca col frazionarsi, una volta che se ne fosse andato Assad, a maggior ragione se si tiene conto delle tensioni settarie che hanno afflitto città come Homs.
Per Israele, il caos può avere in fondo un risvolto positivo: significa che islamisti ed altre forze ostili saranno troppo impegnati nelle lotte intestine per concentrare tutta l’attenzione sulla lotta contro Israele. Per quanto riguarda la sua politica, Israele deve solo adottare una strategia di risoluta deterrenza. Cioè, diffondere il fermo avvertimento che qualsiasi aggressione straniera incontrerà una risposta severa, e agire in base a questo avvertimento se e quando una qualunque aggressione si materializzasse. La deterrenza, però, deve essere coerente.
Nel frattempo, bisognerà accettare il fatto che il caos costituirà il tratto dominante nella regione per un bel po’ di tempo, senza logorarsi continuamente sulla falsa dicotomia fra “democrazia liberale” e “teocrazia islamica”.

(Da: Ha’aretz, 17.2.12)

Nella foto in alto: Aymenn Jawad Al-Tamimi, autore di questo articolo