Cause contingenti e radici profonde del conflitto

I disastri provocati da pacificatori inetti, il profondo rifiuto del diritto nazionale ebraico da parte palestinese

Di Gerald M. Steinberg, Shlomo Avineri

Gerald M. Steinberg

Gerald M. Steinberg

Ha scritto Gerald M. Steinberg, su Israel HaYom: «Un anno fa il Segretario di stato americano John Kerry, l’ex ambasciatore Martin Indyk e, sullo sfondo, il presidente Barack Obama si lanciarono in un ennesimo tentativo di portare la pace tra israeliani e palestinesi. Come tanti altri prima di loro (compresi gli architetti degli accordi di Oslo di vent’anni fa), hanno fallito. E ora, quand’anche si arrivasse a un cessate il fuoco tra Israele e Hamas, gli americani non ne avranno alcun merito.

Non avendo imparato nulla dalla storia, gli aspiranti mediatori di pace hanno dimenticato che la prima regola dei pacificatori, sull’esempio del giuramento di Ippocrate per i medici, dovrebbe essere “Innanzitutto, non nuocere”. E invece, a causa della loro presunzione e inettitudine, ora milioni di israeliani sono presi di mira da raffiche di missili e razzi mentre i palestinesi di Gaza vengono colpiti dalla controffensiva israeliana contro i depositi di armi immagazzinati sotto case, scuole e moschee.

Riguardando al luglio 2013, i rapporti tra Israele e Autorità Palestinese erano buoni come forse non erano mai stati. Hamas era isolata, e si limitava a qualche sporadico lancio di razzi. In Cisgiordania, nonostante il contenzioso sugli insediamenti e la mai cessata istigazione palestinese, la cooperazione aumentava tacitamente con particolare accento sullo sviluppo economico ed edilizio. Mentre la maggior parte del Medio Oriente, dalla Siria all’Iraq al Libano alla Libia all’Egitto, era in preda a sconquassi e guerre, i rapporti israelo-palestinesi erano considerevolmente tranquilli.

Ma Kerry e Indyk non potevano lasciare le cose in pace. Vuoi a causa del loro ego, vuoi per un totale fraintendimento della realtà del Medio Oriente, hanno orchestrato e imposto l’ennesimo maldestro e malconcepito “processo di pace”. I palestinesi hanno immediatamente preteso “gesti” e “concessioni” da parte israeliana come prezzo per la loro partecipazione al negoziato. Sotto la pressione americana, Netanyahu ha acconsentito alla scarcerazione di un altro gruppo di terroristi palestinesi. L’alternativa, congelare ogni attività edilizia ebraica al di là della Linea Verde (la ex linea armistiziale del periodo ‘49-‘67), era strategicamente e politicamente improponibile (oltre che già tentata invano dallo stesso Netanyahu nel 2010).

Una parte delle armi di cui era munito il commando di terroristi Hamas che giovedì mattina ha tentato di infiltrarsi per compiere un attentato nel kibbutz Sufa

Una parte delle armi di cui era munito il commando di terroristi Hamas che giovedì mattina ha tentato di infiltrarsi per compiere un attentato nel kibbutz Sufa

Quando, dopo sette mesi, i negoziati hanno raggiunto il prevedibilissimo punto morto, ed è apparso evidente che le “concessioni” per promuovere la fiducia venivano chieste a una parte sola, Gerusalemme congelava l’ultimo gruppo di scarcerazioni. L’Autorità Palestinese, violando le intese, tornava a rivolgersi agli organismi internazionali per ottenere un riconoscimento bypassando l’accordo di pace con Israele, e completava l’opera facendo un accordo di governo coi terroristi di Hamas.

Di fronte al fallimento della via diplomatica per liberare altri “eroi” attraverso le pressioni di Kerry e Indyk, Hamas coglieva questa opportunità per tornare all’azione e, dopo diversi tentativi falliti, riusciva a mettere a segno il sequestro e l’uccisione di tre adolescenti israeliani, fra le acclamazioni dei palestinesi. All’efferato triplice assassinio (i cui diretti responsabili sono ancora alla macchia in zona palestinese), ha fatto seguito l’efferato rapimento e assassinio di un adolescente palestinese, i cui diretti responsabili sono già stati arrestati e incriminati dalla polizia israeliana. Hamas e le altre organizzazioni terroristiche sue alleate ne approfittavano per lanciare un’ondata di attacchi di razzi sulla popolazione israeliana come non si vedeva dal novembre 2012.

E così, invece della pace, israeliani e palestinesi si sono ritrovati nel bel mezzo di un ennesimo round di brutale violenza. E sono state cancellate la relativa stabilità e la calma che un anno fa caratterizzavano questo angolo di Medio Oriente rispetto alle folli carneficine in Siria e in Iraq». (Da. Israel HaYom, 16.7.14)

Shlomo Avineri

Shlomo Avineri

Ha scritto Shlomo Avineri, su Ha’aretz: «È importante interrogarsi sui motivi del fallimento del processo di pace che ebbe inizio ventun anni fa a Oslo. Non c’è dubbio che chi avviò quel processo credeva veramente che avrebbe portato a un compromesso storico tra noi e i palestinesi. I sostenitori del processo di Oslo vedevano questo conflitto come un conflitto tra due movimenti nazionali e credevano – come chi scrive – che negoziati diretti tra Israele e Olp potessero trovare una soluzione alle questioni territoriali e strategiche che stavano al centro della controversia. Non fu facile convincere gli israeliani, anche quelli del partito laburista, che dall’altra parte c’era un movimento nazionale: certamente un movimento con aspetti terroristici, ma che fondamentalmente aveva diritto, come il movimento sionista, di esercitare l’autodeterminazione nazionale.

Sbagliavamo. I palestinesi non ritengono che questo sia un conflitto tra due movimenti nazionali. Dal loro punto di vista, questo è un conflitto tra un solo movimento nazionale, quello palestinese, e un’entità colonialista e imperialista destinata prima o poi a scomparire dalla faccia del mondo. Ecco perché l’analogia che compare nei libri di testo palestinesi è l’Algeria: non la Cisgiordania come l’Algeria, ma tutto il paese (Israele compreso) è come l’Algeria. E gli israeliani in un modo o nell’altro scompariranno come sono scomparsi i coloni francesi dall’Algeria.

La posizione israeliana parla di “due stati per due popoli”, ma nella versione palestinese la locuzione “due popoli” non compare: parla solo di “due stati”. Se qualcuno pensa che questa sia una sottigliezza, interroghi un po’ approfonditamente un interlocutore palestinese circa la sua opinione sulla formula “due stati per due popoli” e prima o poi si sentirà rispondere che non esiste nessun popolo ebraico. Questo è anche il motivo per cui i palestinesi rifiutarono la formula proposta dal Segretario di stato americano John Kerry, che parlava di un accordo tra “due stati-nazione”. La verità è che nella narrativa palestinese gli ebrei non sono né un popolo né una nazione, ma solo una comunità religiosa e quindi non hanno alcun diritto a uno stato. Questo è anche il motivo dell’intransigente rifiuto palestinese di riconoscere Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”.

Tutta l'iconografia dell'irredentismo palestinese rivendica l'intero paese con la cancellazione di Israele (qui, un manifesto del 2014 per i 66 anni dalla Naqba, il "disastro" della nascita di Israele)

Tutta l’iconografia dell’irredentismo palestinese rivendica l’intero paese, con la cancellazione di Israele (qui: un manifesto del 2014 per i 66 anni dalla Naqba, il “disastro” della nascita di Israele)

Questa è la radice del conflitto: non i confini, non gli insediamenti e neanche Gerusalemme. Naturalmente, anche il rifiuto palestinese di rinunciare al principio del “diritto al ritorno” è legato a questo concetto. Ci sono buone ragioni per criticare la condotta del governo Netanyahu durante i tentativi negoziali di Kerry, ma negare queste ragioni più profonde è disonestà intellettuale.

Il Sionismo quando accettò il principio della spartizione, nel 1948, credeva, proprio come gli artefici di Oslo, che il movimento nazionale palestinese fosse l’immagine speculare del movimento sionista e che il loro fosse un conflitto tra due movimenti nazionali. In un conflitto di questo genere il compromesso è possibile. Se invece si pensa che il proprio movimento sia in lotta contro un’entità colonialista e imperialista, allora non vi è alcuna possibilità né alcuna giustificazione morale per il compromesso.

Cosa si può fare? Anche nel difficile clima di questi giorni è necessario guardare al futuro. Nulla si ci può aspettare dagli Stati Uniti o del governo Netanyahu. L’amministrazione Obama ha fallito in ogni sfida di politica estera: Crimea e Ucraina, Siria e Iraq, la questione nucleare iraniana, il delirante flirt con i Fratelli Musulmani in Egitto, le dichiarazioni di amicizia personale di Obama verso il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan che si va sempre più rivelando come un autocrate. Il governo Netanyahu, dal canto suo, ha puntato tutto sullo status quo e chiunque può vedere che è una strada disastrosa.

Bisogna proporre un’alternativa, e certamente non serve ripetere il mantra che si devono riprendere i colloqui di pace perché, anche se lo faremo, è chiaro che non daranno frutti esattamente come in passato. Senza rinunciare al principio “due stati per due popoli”, si devono proporre misure urgenti in questo momento: non in alternativa a una soluzione definitiva, ma come un modo graduale per muoversi verso di essa. […] Quelli di noi che hanno sostenuto il processo di Oslo, e che nonostante tutto pensano ancora che quel passo fosse giusto, devono riconoscere che la salvezza non verrà dai palestinesi. Sono sinceramente non interessati a una soluzione a due stati per due popoli perché non sono disposti a riconoscere legittimità al diritto degli ebrei all’autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi: non nel senso della potenza militare, ma della nostra saggezza, della nostra volontà di preservare, qui, uno stato nazione ebraico e democratico, e la nostra capacità di realizzare questo desiderio nelle difficili condizioni di un profondo rigetto dall’altra parte». (Da: Ha’aretz, 16.7.14)