Centrodestra, centrosinistra e Israele: facciamo il punto

Sia a destra che a sinistra c’è chi fa professione di solidarietà verso Israele, magari per coprire un passato di segno opposto. La politica estera italiana è cambiata, ma quanti sono i veri amici d’Israele?

di Marco Paganoni, febbraio 2010

image_2764Se la politica estera dell’Unione Europea conta poco, figuriamoci quella dell’Italia. Ma per quel poco che vale, certamente non si può più dire che si ripeta sempre uguale. Il giro di boa va probabilmente datato al 15 aprile 2002 quando, non per iniziativa del governo (Berlusconi II), bensì, come suol dirsi, della società civile, si tenne a Roma il primo “Israele Day”: la storica mobilitazione convocata da Massimo Teodori e dal Foglio di Giuliano Ferrara che sdoganò nell’opinione pubblica la solidarietà per Israele, spezzando il soffocante conformismo anti-israeliano che per decenni aveva caratterizzato tanta parte della scena politica italiana.
Oggi non desta quasi più meraviglia ricordare che il governo italiano, il Berlusconi IV, è stato fra i primi a guidare la volata del boicottaggio alla Conferenza Durban II di Ginevra (aprile 09), e fra quelli che hanno votato contro il famigerato Rapporto Goldstone (settembre 09).
Nessun amico di Israele, per quanto critico di Berlusconi, può negare la distanza che corre fra un ministro degli esteri come Massimo D’Alema che il 15 agosto 2006 si faceva fotografare sottobraccio al boss Hezbollah Hussein Haji Hassan per le vie di Beirut, e un primo ministro che va alla Knesset (3.02.10) e dichiara: “La sicurezza di Israele e il suo diritto ad esistere come stato ebraico sono una scelta etica e un imperativo morale. Noi vi ringraziamo per il fatto stesso di esistere”.
Non si può non vedere la distanza fra governi che trovavano parole solo per stigmatizzare “l’uso eccessivo della forza da parte di Israele”, e il governo che auspica “una svolta che metta da parte per sempre la cultura della violenza inducendo il popolo palestinese a guardare con fiducia al rapporto con lo stato ebraico”.
Quanta strada è stata percorsa per passare da un’Italia che negli anni ’70 e ’80 patteggiava sottobanco coi terroristi mediorientali, permettendo loro di gestire covi, immagazzinare armi e persino di attaccare impunemente non solo obiettivi israeliani, ma anche ebraici (così Francesco Cossiga a Yediot Aharonot il 3.10.08), a un’Italia che rafforza il contingente in Afghanistan a sostegno del surge di Barack Obama contro il terrorismo islamista, e che definisce “inaccettabile l’armamento atomico nelle mani di uno stato i cui capi proclamano la volontà di distruggere Israele”? Guadagnandosi en passant un mezzo assalto della teppa di Mahmud Ahmadinejad alla propria ambasciata a Tehran.
Non basta. Con la singolare formula della riunione congiunta di governo italo-israeliana a Gerusalemme il 2 febbraio scorso si è arrivati alla firma di nove protocolli bilaterali di cooperazione nei campi dell’economia, dell’ambiente e della cultura. Si va dalla possibilità di cumulo dei contributi previdenziali fra Italia e Israele per coloro che abbiano affrontato l’alyià, alla partecipazione italiana in importanti infrastrutture come la nuova linea ferroviaria Mar Rosso-Mediterraneo e il collegamento veloce per le merci dal porto di Haifa alla Giordania, all’impegno di rafforzare la presenza della cultura italiana in Israele e il giornale degli italiani in Israele Kol HaItalkim.
Tutto per il meglio, dunque? Lo sarebbe se fossimo sicuri che il grosso del corpo politico, come l’intendenza, segue. Seri dubbi sono sorti, invece, di fronte a un articolo sul Giornale del 10 febbraio scorso in cui Alessandro Sallusti sostanzialmente negava a un giornalista italiano (non importa quale) il diritto in quanto ebreo di criticare in tv Chiesa Cattolica e Santa Sede. E lo attaccava, sempre in quanto ebreo, per non aver parlato nella sua trasmissione del finanziere (ebreo) Bernard Madoff o degli scandali governativi israeliani. Articolo tanto più interessante, ha scritto David Bidussa, per i commenti che ha suscitato sul blog del Giornale, dove “tornano parole ed espressioni che correvano nell’Italia razzista degli anni ’30”: un vero “termometro del ventre profondo del Paese” dove “ebreo torna a essere sinonimo di traditore e costruttore di trame, di straniero e anti-italiano”. Chiara dimostrazione, ne conclude Bidussa, che “si può difendere le ragioni politiche di Israele ed essere antisemiti”.
Torna alla mente una polemica che, a parti invertite, vide intervenire da par suo il comunista Luciano Canfora sul Corriere della Sera del 14.02.08, ai tempi degli attacchi al Salone del Libro di Torino. “Per aver scelto, com’ è ovvio – scriveva Canfora – di respingere sul Manifesto lo sciocchezzaio anti-israeliano sprigionatosi a margine della indicazione di Israele come ospite d’onore a Torino, Valentino Parlato è stato oggetto di critiche incolte ‘da sinistra’, come si suol dire”. E continuava: “Che contro gli ebrei e contro Israele si scaglino i neonazisti d’Europa e d’America è comprensibile. Che Storace rimproveri Fini di essere andato a Gerusalemme come a Canossa è altrettanto comprensibile. Del resto c’è ancora teppa che confeziona ‘liste’ di ebrei da additare come complottatori lobbisti. Ma che esponenti poco alfabetizzati della sinistra credano davvero di stare dalla parte giusta quando scendono al livello mentale di Hamas è molto preoccupante”.
Davvero preoccupante è il fatto che, a sinistra come a destra, la solidarietà verso Israele appaia troppo spesso come una deviazione, reciprocamente tacciata di subdolo opportunismo. In Italia i sinceri amici d’Israele esistono, ma forse sono ancora troppo pochi.