Certo che ci interessa la pace

Ipotizzare il contrario significa fraintendere completamente lo stato d’animo perplesso degli israeliani.

Di Mati Gill

image_2945Sono un israeliano giovane. Originario di Columbus, Ohio, mi sono stabilito qui diciotto anni fa insieme alla mia famiglia; ho prestato servizio per sei anni nelle Forze di Difesa israeliane, dopodiché ho ricoperto una serie di incarichi pubblici. Per questo, quando ho visto il titolo di copertina dell’ultimo numero del settimanale Time “Why Israelis Don’t Care about Peace,” (perché agli israeliani non interessa la pace?), mi sono sentito personalmente incompreso, un sentimento che gli israeliani hanno imparto a conoscere giacché troppo spesso Israele resta “lost in translation” (smarrito nella traduzione).
È vero che l’ultimo round di colloqui di pace non ha suscitato grande emozione fra gli israeliani della strada, almeno finora. Ma posso garantire che la stragrande maggioranza degli israeliani desidera ardentemente la pace ed è convinta che una soluzione “a due stati” sia tanto cruciale quanto urgente. Dopo anni di negoziati, summit e occasioni e di fallimenti schivati, la domanda oggi non è se, bensì quando e come questo risultato verrà raggiunto.
Dopo solo un anno che mi ero trasferito a Gerusalemme, avevo allora dodici anni, ricordo bene il periodo dell’avvio del processo di pace, con gli accordi di Oslo. A quel tempo, i primi anni ’90, il tema della soluzione a due stati e della creazione di uno stato palestinese accanto al nostro stato ebraico d’Israele era aspramente dibattuta. Erano i tempi in cui l’esercito conduceva esercitazioni sulla base della possibilità che uno stato palestinese venisse proclamato unilateralmente. Oggi molti israeliani e molti leader israeliani non vedono più questa eventualità come una minaccia; piuttosto si domandano se vi sia un leader palestinese capace di compiere un tale passo: vale a dire, di concentrarsi su una vera opera di edificazione nazionale anziché perdersi dietro alle moratorie degli insediamenti.
È vero che l’ultimo vertice per la pace, in questa sua fase iniziale, non è ancora diventato prioritario rispetto, alle questioni interne, presso la maggioranza degli israeliani. E i nostri mass-media riflettono questo fatto. Come tutte le persone di buon senso, noi teniamo in maggior conto l’intelletto che il risentimento, la parola più della spada. Per questo è incredibilmente frustrante quando le questioni attorno al conflitto occupano il centro della scena. Noi israeliani ci teniamo ad impedire che ogni sfaccettatura del conflitto domini le nostre vite.
Tuttavia questo non significa che noi, soprattutto quelli fra noi delle generazioni più giovani, non siamo interessati alla pace o che addirittura non vogliamo la pace. Al contrario, siamo profondamente interessati alla pace e non vediamo l’ora che venga il giorno in cui questo conflitto finalmente avrà fine. Attendiamo con ansia quel giorno: per il bene nostro e per quello delle generazioni future. Attendiamo con ansia il giorno in cui non dovremo più mandare i nostri figli a servire sotto le armi. Attendiamo con ansia il giorno in cui non dovremo più stare in perenne allerta per i terroristi. Ipotizzare che le cose stiano in modo diverso significa fraintendere completamente lo stato d’animo perplesso dell’israeliano della strada attorno ai recenti sforzi per la pace. Lo scetticismo, quando c’è, non scaturisce da una mancanza di desiderio per la pace, quanto piuttosto da una varietà di altri fattori. Innanzitutto, vorremmo leader con maggiore ispirazione da entrambe le parti. Non sono più i tempi della coraggiosa leadership di Yitzhak Rabin, della storica visione di Anwar Sadat, dei gesti grandiosi di re Hussein. Oggi i leader di tutte le parti hanno l’occasione di offrire tale ispirazione. Dal punto di vista israeliano, sembra che il primo ministro Benjamin Netanyahu abbia intenzione di cogliere questa opportunità, con la sua dichiarazione di disponibilità a fare dure concessioni in nome della pace. Andrebbe applaudito e incoraggiato per questo.
Nel frattempo i giovani israeliani non se ne stanno a guardare con le mani in mano. Si formano organizzazioni, nascono movimenti, e la generazione più giovane si sta levando. Ad esempio, giovani leader si sono uniti a leader politici e imprenditori, presenti e passati, appartenenti a tutto l’arco politico, per dare vita a “Blue White Future” (Futuro Bianco e Blu), uno sforzo dal basso per incanalare la volontà politica in una campagna politica organizzata. Il consenso per una buona soluzione esiste già, ha solo bisogno di trovare una voce.
In secondo luogo, ci siamo stancati del solito gioco a scaricabarile che circonda i colloqui di pace. Le stesse parti coinvolte fanno orami fatica a ricordare quando tutto è cominciato e a tenersi aggiornati su colpe e torti di ciascuna parte in ogni dato momento.
E poi abbiamo l’impressione che alcune questioni di importanza strategica non vengano nemmeno affrontate, come ad esempio il controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. Come è possibile negoziare una soluzione a due stati senza prendere atto della feroce rivalità fra Hamas e Olp? Il che pone l’interrogativo se vi sia davvero una reale possibilità di pace, o solo la possibilità di un mero pezzo di carta. Rispondere a questi interrogativi può richiedere da parte nostra sacrifici laceranti, sebbene necessari, e straordinarie assunzioni di rischio.
Ma nonostante tutti questi dubbi, noi vogliamo davvero credere che questi colloqui di pace possano funzionare; e sperare che non si tratti dell’ennesimo summit destinato a finire in una funesta delusione. Lo si vede da come il nostro morale si solleva ogni volta che ci pare di intravedere un barlume di speranza. Quando Netanyahu ha dichiarato che l’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è il suo “partner per la pace”, le pagine dei giornali israeliani si sono riempite di speranza. I giovani israeliani si aggrappano a qualunque segnale concreto che la pace stia arrivando davvero. Vogliamo essere ispirati. Vorremmo tanto credere che questa volta sia diversa dalle altre, e che i leader di Israele e di tutti i nostri vicini arabi questa volta facciano sul serio.
Noi speriamo sinceramente di poterci gettare alle spalle questo conflitto. Israeliani di ogni età e di ogni ambito sociale riempiranno le strade e le piazze, quando si capirà che è arrivato il momento di una pace solida e duratura. Il nostro messaggio è, ed è sempre stato, molto chiaro: “Non dubitate del nostro desiderio di pace, non dubitate che siamo interessati alla pace”. Certo che siamo interessati. Ora, facciamola succedere.

(Da: Jerusalem Post, 27.9.10)

Nella foto in alto: un happening per la pace di giovani israeliani