Che importa scoprire chi ha ucciso la giornalista di Al-Jazeera se la verità non conta nulla?
Ci sono nuove regole nella giungla dei mass-media: fake news e pregiudizio prevalgono sui fatti spingendo i giornalisti a raccattare qualsiasi informazione, vera o falsa, pur di promuovere la narrativa che piace ai loro lettori
Di Mark Lavie
Avrei potuto essere io. In quanto giornalista radiofonico attivo per quattro decenni in Medio Oriente, mi sono trovato sulla linea di tiro una quantità di volte. L’incidente più memorabile, perché ne conservo la registrazione, avvenne nel gennaio 1988 nel campo palestinese di Jalazone, vicino a Ramallah. Stavo camminando a lato di palestinesi che marciavano attraverso il campo fino al margine della baraccopoli, sotto l’autostrada principale. A quel punto iniziarono a lanciare pietre contro i soldati israeliani. I soldati risposero sparando lacrimogeni e proiettili di gomma verso i manifestanti. Sul nastro, mi si sente dire: “Ora i soldati mirano in questa direzione BOOM BOOM”. I soldati non sapevano che fossi lì. Anche se l’avessero saputo, erano troppo lontani per distinguere il grande logo colorato dell’emittente, stampato sul registratore che portavo a tracolla. Per mia fortuna, quella volta ne sono uscito illeso.
Se invece mi avessero colpito, certamente non ci sarebbe stata un’ondata mondiale di condanna di Israele e una campagna di diffamazione in lungo e in largo. A quell’epoca parecchi miei colleghi subirono ferite da arma da fuoco. A me capitò, in altre occasioni, d’essere scaraventato a terra da un poliziotto o colpito dai gas lacrimogeni di un altro. Nessuno di quegli incidenti, occorsi a me e ad altri, si meritò la condanna del Dipartimento di stato americano. Innanzitutto, perché i reporter devono stare nel mezzo dell’azione e, sebbene siamo addestrati a tenerci alla larga dai colpi, a volte non ci riusciamo. Fa parte della professione: a volte ci facciamo male. In secondo luogo, perché nel secolo scorso non c’erano gli “anti-social” network pronti a scatenare una bolgia di video amatoriali e/o falsi e di presunte “prove”, o semplicemente di puro odio.
Ecco perché non importa stabilire con obiettività chi ha sparato il colpo che ha ucciso la giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh nel campo palestinese di Jenin. Perché di questi tempi la verità non conta. Il detto “ho già la mia opinione, non confondermi con i fatti” era una battuta. Oggi è la realtà. Oggi nella giungla dei mass-media funzionano nuove regole (alcuni direbbero: nessuna regola). Ci sono giornalisti votati alla professione in modo tradizionale che continuano a rispettare le vecchie regole di correttezza, contesto e analisi imparziale. Ma sono sopraffatti dalle urla di mass-media che dicono al proprio pubblico quello che vuole sentirsi dire (anche testate un tempo rispettabili) e organi d’informazione che non fanno nemmeno finta di rispettare quelle regole limitandosi a raccattare immediatamente senza vergogna qualsiasi informazione, vera o falsa, che promuova la loro causa.
Si aggiunga a tutto questo la pressione verso la “correttezza politica”, che limita in partenza ciò che un giornalista è autorizzato a dire. Nei giorni scorsi è giunta la notizia di un gruppo di persone che avevano aggredito medici e infermieri della terapia intensiva di un ospedale di Gerusalemme, dopo che vi era deceduta un’altra persona. C’è voluta un’intera giornata prima che i mass-media locali lasciassero intendere che gli aggressori erano arabi di Gerusalemme est e che il defunto era morto per overdose. Per tutto quel tempo, gli ascoltatori potevano solo cercare di indovinare chi fossero gli aggressori, indotti anche a ipotizzare che il poveretto fosse stato ucciso dai crudeli soldati israeliani o dalla polizia “giustificando” in questo modo le violenze nell’ospedale. Pochi giorni dopo si è verificato un incidente simile in un ospedale di Nahariya, nel nord di Israele, con analoghe notizie incomplete. Eppure, è evidente che quei dati di fatto sottaciuti erano cruciali per capire il contesto dell’evento.

Giornalisti uccisi nel periodo 1990-2020, dal rapporto della Federazione Internazionale dei Giornalisti (clicca per ingrandire)
Ho lasciato il giornalismo quotidiano nel 2014 dopo anni di battaglie, e di sconfitte, con i miei colleghi su imparzialità e contesto. Nella mia redazione venni designato come l’elemento “pro-Israele”, ma non era il ruolo per cui avevo firmato quando ero diventato giornalista nel 1963. Il caso peggiore fu il rifiuto della mia agenzia di permettermi di riferire il mio scoop sull’offerta di pace del 2008 fatta da Israele ai palestinesi. “Non è una notizia”, disse il mio capo.
Normalmente non scrivo articoli come questo senza cercare di suggerire soluzioni, ma questa volta non ce ne sono di facili. Con l’antisemitismo travestito da anti-sionismo (qualunque cosa questo significhi nel XXI secolo) che dilaga nei campus universitari del Nord America, promosso da gruppi che inventano fatti e “narrazioni” – due termini che essenzialmente significano l’uno l’opposto dell’altro –, tentare di rispondere con i dati di fatto è consolante, ma perlopiù inutile. Sono necessari nuovi approcci, in questa lotta impari. Non sostengo mai la violenza, e non lo faccio nemmeno ora. Non solo è moralmente sbagliato, è anche controproducente. Basterà dire che quegli esperti che sanno mandare in tilt le centrifughe iraniane con alcuni colpi di tastiera forse potrebbero mettere i loro sforzi anche al servizio di questa battaglia.
(Da: Jerusalem Post, YnetNews, 21-22.5.22)
Yifat Tomer-Yerushalmi, a capo dell’avvocatura generale delle Forze di Difesa israeliane, ha affermato lunedì che i militari stanno facendo ogni sforzo per indagare in modo completo e approfondito sulle circostanze della morte da arma da fuoco della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, a Jenin, lo scorso 11 maggio. “La ‘nebbia di guerra’ – ha detto Tomer-Yerushalmi – non ci esonera dal dovere di batterci per la verità e chiarire ogni dubbio”. Tuttavia, ha aggiunto, “il modo migliore per determinare come è morta la giornalista è condurre un esame balistico professionale del proiettile estratto dal corpo. Senza la possibilità di esaminare il proiettile, che l’Autorità Palestinese si rifiuta di mettere a disposizione, risulta impossibile determinare al di là di ogni dubbio le circostanze della morte”. Tomer-Yerushalmi ha anche chiarito che la giornalista è stata colpita durante una sparatoria che ha visto decine di miliziani palestinesi sparare centinaia di proiettili da diverse posizioni verso le forze israeliane (impegnate in un’operazione per l’arresto di terroristi). In questa fase, pertanto, non si profilano gli estremi per aprire un’indagine criminale per omicidio. Comunque, ha concluso Tomer-Yerushalmi, “una decisione finale su questo sarà presa alla fine dell’inchiesta militare”. La scorsa settimana, le Forze di Difesa israeliane hanno affermato d’aver identificato l’arma che potrebbe aver sparato il colpo fatale, ma per la conferma è necessario esaminare il proiettile in possesso dell’Autorità Palestinese.
Dal canto suo, il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese, Riyadh al-Maliki, ha annunciato lunedì d’aver già inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aia un fascicolo sull’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh affinché venga avviata un’indagine “contro Israele”. L’Autorità Palestinese ha già stabilito che “l’uccisione di Abu Akleh è un crimine penale” commesso da Israele, ha detto al-Maliki, ed è per questo che l’Autorità Palestinese ha ripetutamente rifiutato la proposta israeliana di condurre un’indagine congiunta.
(Da: Times of Israel, Jerusalem Post, YnetNews, 23.5.22)
L’attrice e produttrice 44enne israeliana Noa Tishby, autrice del libro Israel: A Simple Guide to the Most Misunderstood Country on Earth, recentemente nominata inviata speciale per la lotta all’antisemitismo e alla delegittimazione di Israele, ha postato questo breve video, in cui afferma che la tragica morte di Shireen Abu Akleh non è stata un’esecuzione né un omicidio premeditato. E aggiunge: purtroppo dei giornalisti vengono uccisi in tutto il mondo ogni settimana, senza la stessa reazione globale, e questo è doppio standard.
Noa Tishby: “Ecco alcuni fatti che potreste non conoscere. La Federazione Internazionale dei Giornalisti ha pubblicato un rapporto sul numero di giornalisti morti in zone di guerra tra il 1990 e il 2020. Secondo il rapporto, in quel periodo sono rimasti uccisi 2.658 giornalisti: 340 sono stati uccisi in Iraq, 178 in Messico, 160 nelle Filippine, 138 in Pakistan e 116 in India [23 in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa ndr]. Dodici di questi casi erano giornalisti di Al-Jazeera: 7 uccisi in Siria, due in Iraq, uno in Yemen, uno in Libia. E un caso la scorsa settimana [a Jenin]. Ognuna di queste morti è terribile. Ma non sapreste citare il nome degli altri 2.657 giornalisti. Siete in grado di nominare solo quello rimasto ucciso negli scontri tra terroristi palestinesi ed esercito israeliano. In nessuna delle altre morti si sono viste le reazioni e una retorica al vetriolo, odiosa e orribile, come quelle che si sono viste dalla comunità internazionale, dai social network, dalle celebrità e dalle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Questo è quello che chiamiamo doppia morale… e trova radice unicamente nell’antisemitismo, a volte inconscio, nel razzismo anti-ebraico. Quindi, per favore, pensateci almeno per un minuto, okay? E riposa in pace, Shireen.”