Chi è il vero bambino viziato?

Con tutte le sue accuse a Israele, il regime saudita è parte del problema, non della soluzione

di Douglas Bloomfield

image_2727Non è favoloso quando il leader di una delle monarchie più soffocanti, corrotte e feudali del pianeta trova modo di fare la predica su come bisogna comportarsi all’unica democrazia che esiste nella sua parte di mondo? Se la critica fosse arrivata da un governo maturo e responsabile, la si poteva anche prendere sul serio. Ma certamente non è questo il caso quando il ministro degli esteri dell’Arabia Saudita definisce Israele “un bambino viziato”, e chiede che il resto del mondo lo costringa ad accettare tutte le pretese arabe.
Quando il ministro degli esteri saudita Saud al-Faisal ha dichiarato (all’inizio del mese) che Israele “fa quel che vuole senza essere contestato né castigato”, ha fornito in realtà una perfetta descrizione del suo stesso paese il quale, grazie a una fortuita circostanza geologica, può prendere per il naso tutto il resto del mondo. Quando si sente minacciato, si rannicchia sotto l’ombrello nucleare americano e implora che le forze americane accorrano in suo soccorso; poi pretende che sgomberino dal sacro suolo saudita per aspettare al di là dell’orizzonte finché non saranno chiamate di nuovo. È ciò che accadde quando Saddam Hussein si presentò alle porte del Regno, ed è ciò che sta accadendo di nuovo ora, a fronte alle mire nucleari iraniane.
Quando il presidente Barack Obama ha chiesto una mano al re saudita per mediare la pace fra Israele e palestinesi, è stato bruscamente respinto, ed affinché il messaggio fosse ben chiaro il ministro degli esteri saudita è andato a dirlo pubblicamente a Washington, sui gradini del Dipartimento di stato. Il suo messaggio era uno e uno soltanto: fate pressioni più dure su Israele.
In un’intervista ai primi di gennaio, il principe Saud ha nuovamente accusato Israele di non fare abbastanza sul serio circa la pace: parole vuote sulle labbra di uno dei più grandi protettori del terrorismo al mondo. Il paese che ha prodotto 15 dei 19 attentatori dell’11 settembre e che figura sulla nuova lista americana dei paesi proni al terrorismo, è il primo paese arabo per finanziamenti e per sostegno agli islamisti di Hamas, che costituisce il principale ostacolo all’unità palestinese sotto la leadership dei nazionalisti laici Fatah e Mahmoud Abbas (Abu Mazen). A chiacchiere i sauditi sostengono uno stato palestinese democratico e indipendente, ma deve essere l’ultima cosa che vogliono veramente per paura che esso finisca per stabilire un intollerabile esempio per il loro stesso popolo.
Se le donne musulmane cercano in Medio Oriente un posto dove possano essere libere di votare, di esprimere le loro opinioni, di perseguire istruzione e carriera a loro scelta, di praticare la religione come preferiscono, di vestirsi come vogliono, di guidare un’auto e viaggiare da sole, devono starsene ben lontane dall’Arabia Saudita. Di fatto le donne musulmane si trovano meglio in Israele che in qualunque paese arabo. Una giornalista saudita, attivista per i diritti umani, ha definito il suo paese “la più grande prigione femminile del mondo”.
La libertà di religione non esiste, nel Regno saudita dominato dalla corrente estremista islamica degli wahabiti: ai non musulmani è proibito professare in pubblico la propria religione; i musulmani più moderati vivono nell’eterna paura.
L’Indice di democrazia dell’Economist classifica l’Arabia Saudita come il settimo regime più dispotico fra i 167 paesi analizzati.
L’ultimo rapporto del Dipartimento di stato Usa sul traffico di esseri umani afferma che il Regno non risponde nemmeno “agli standard minimi per tentare di eliminare questo traffico, e non sta facendo alcuno sforzo discernibile in questo senso”. Il che significa: nessun lotta legale e nessuna condanna per la schiavitù sessuale, la servitù non consenziente, lo sfruttamento commerciale del sesso.
Le organizzazioni internazionali per i diritti umani condannano costantemente la pratica della tortura in Arabia Saudita, le fustigazioni, gli omicidi d’onore e la pena di morte per omosessualità e adulterio.
Come risponde il Regno a queste accuse? Le snobba come “menzogne”, e difende i suoi comportamenti in quanto conformi alla legge islamica. E cosa fa il resto del mondo? Niente di niente.
Ecco, questo è l’auto-consacrato modello di virtù che ha avuto la faccia tosta di definire Israele “un bambino viziato”. Sia chiaro: Israele è ben lungi dall’essere perfetto, ma francamente potrebbe proprio sembrarlo in confronto a paesi come l’Arabia Saudita.
Israele sarebbe viziato dal resto del mondo, come sostiene Saud? Non direi proprio. Basta guardare alle Nazioni Unite, dove i sauditi e i loro sodali fanno passare costantemente ogni anno una quantità di risoluzioni anti-israeliane senza quasi incontrare opposizione. Se c’è un paese immaturo e super-coccolato è proprio l’Arabia Saudita, che può permettersi di agire nella totale impunità grazie alla sua enorme ricchezza e al petrolio.
A dispetto di tutta la loro pomposa devozione nel predicare la pace, e delle loro accuse a Israele di non fare sul serio circa la pace, sono proprio i sauditi quelli che fanno solo chiacchiere e niente fatti. Proprio loro, che si troverebbero nella posizione migliore all’interno del mondo arabo per rompere l’impasse, e invece non muovono un dito per dare un contributo, ed anzi si distinguono come i promotori di Hamas, l’estremista del rifiuto. A dispetto di tutti i loro anatemi e di tutte le loro accuse contro Israele, quando si tratta di fare sul serio la pace i bacchettoni sauditi continuano ad essere parte del problema, non della soluzione.
L’Arabia Saudita ha bisogno della nostra protezione e dei nostri mercati più di quanto noi abbiamo bisogno del suo petrolio. Ciò che occorre davvero è un Progetto Manhattan che ponga fine alla nostra dipendenza dal petrolio straniero per piantarla di lasciarci mettere in un barile da corrotti potentati feudali e padrini del terrorismo. Questo ci renderebbe più liberi, più forti, più sicuri e più prosperi.

(Da: Jerusalem Post, 7.1.10)

Nella foto in alto: Sui cartelli “Muslims Only” e “For Non Muslims”.
Scrive Amir Oren (Ha’aretz, 03/01/2010): “C’è un apartheid su alcune strade del Medio Oriente, strade dove le persone vengono separate in base alla loro religione. È un fenomeno che è del tutto sfuggito a Jimmy Carter, a Condoleezza Rice, a Richard Goldstone e ai politici scandinavi, eppure è lì, scritto a chiare lettere, bianco su verde: sui cartelli stradali in Arabia Saudita. Li si può vedere lungo le autostrade che conducono alla Mecca e sulle quali possono viaggiare solo i musulmani. Agli altri, impuri eretici che non sono altro, è proibito usarle: con ripugnanza, vengono relegati su altre strade”.

Si veda anche:

Cosa potrebbero fare i paesi arabi per la pace, in: Abbattere il muro dell’odio

https://www.israele.net/articolo,2663.htm