Chiamare il nemico col suo nome

Né Bush né Obama né i leader europei hanno il fegato di dire che il nemico è la jihad globale

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2713La concreta, attuale e perdurante minaccia posta alla civiltà occidentale dalla rete mondiale del terrorismo islamista non potrà essere sopraffatta finché americani, europei e altri popoli amanti della libertà non verranno mobilitati né preparati ai sacrifici che dovranno affrontare.
Nessun osservatore serio minimizza i pericoli. L’attacco perpetrato lo scorso novembre a Fort Hood da Nidal Malik Hasan, un musulmano americano di nascita, ha mostrato le fatali conseguenze che può avere la mancata intercettazione di una “bomba a orologeria” umana. E gli arresti lo scorso anno di Najibullah Zazi, David Headley e di cinque giovani americani pakistani coinvolti in diversi piani di attacco contro l’America hanno inconfutabilmente provato che i jihadisti cresciuti all’interno costituiscono una vera minaccia, proprio come si è visto in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna. Anche se Farouk Abdulmutallab non è riuscito a fare esplodere il volo 253 della Northwest per Detroit, la strage mancata della vigilia di Natale non è stata che l’ultima prova dell’esistenza di un network terrorista islamista con basi in Africa, penisola arabica e Asia meridionale e cellule praticamente dappertutto, e con una perniciosa presenza in internet, che si considera inesorabilmente in stato di guerra con l’occidente.
Un recente editoriale del New York Times terminava dicendo: “Afghanistan, Pakistan, Yemen? Gli americani hanno diritto di sentirsi stanchi. Ma la macchinazione di Abdulmutallab rappresenta un ammonimento su perché sia così importante fermare il caos totale nello Yemen. L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è di un altro covo per al-Qaeda”.
Giusto. Ma se gli americani sono “stanchi” in questa fase del conflitto, in parte è perché i loro leader – e i loro mass-media – non inquadrano nel modo appropriato la natura della minaccia. Né l’ex presidente George W. Bush, che parlava di “guerra al terrorismo”, né il presidente attuale Barack Obama, che parla di “estremisti violenti”, né i leader europei hanno il coraggio di dire che il nemico si chiama jihad globale.
Il pericolo islamista non è principalmente radicato in senso geografico: in Afghanistan, nel Pakistan, nello Yemen, in Somalia, nel Libano, in Iran o in Arabia. Esso è innanzitutto radicato teologicamente e politicamente all’interno della più ampia civilizzazione islamica. Gli occidentali potranno cogliere il quadro d’insieme e “unire i puntini” – tra, tanto per dire, il devastante attentato alla Base Operativa Avanzata Chapman in Afghanistan presso il confine col Pakistan, che ha mietuto le vite di sette agenti della Cia esperti in anti-terrorismo, e il tentato assassinio a colpi di ascia di un vignettista nella città danese di Aarhus lo scorso fine settimana – solo quando i loro leader affermeranno a chiare lettere chi è il nemico da cui ci stiamo difendendo, a cosa mira e qual è la posta in gioco se quel nemico dovesse prevalere.
Il fatto che la prima reazione del segretario alla sicurezza interna Usa Janet Napolitano di fronte all’attentato contro il volo Northwest 253 sia stata quella di pensare che non fosse collegato ad alcun piano più vasto testimonia quanto sia difficile modificare certi modo di pensare. Anche la prima reazione di Obama è stata che Abdulmutallab sembrava essere “un estremista isolato”. Eppure, a confronto con la maggior parte dei leader del mondo, Obama sembra quasi un Churchill. In effetti ha pronunciare enunciato correttamente l’obiettivo: “Disgregare, smantellare e sconfiggere gli estremisti che ci minacciano, ovunque si ritrovino a pianificare i loro attacchi”. Ha anche il corretto approccio teorico: “Il male, nel mondo, esiste”. E inoltre comprende perfettamente la natura amorfa del nemico quando afferma che “la guerra” è contro “una rete ad amplissimo raggio”. L’anello che manca è chiamare questo nemico col suo nome. Solo allora Obama potrà parlare con franchezza di quanto sia difficile, ma necessario, trovare alleati musulmani degni di fiducia.
Gli agenti della Cia assassinati sono stati probabilmente traditi da afgani di cui si fidavano. Al-Qaeda, nello Yemen, si è in parte rianimata quando dei terroristi sono stati liberati da un’evasione verosimilmente organizzata da elementi rinnegati all’interno della polizia segreta yemenita.
Anche se i leader occidentali mobilitassero le loro società, la lotta contro la minaccia islamista resterebbe comunque estenuante. Si tratta di un nemico spesso incistato fra i civili, che incute obbedienza decapitando (letteralmente) coloro che sospetta di infedeltà. I cittadini del mondo libero devono saperlo, e devono capire come mai talvolta accade tragicamente che dei bambini innocenti vengano accidentalmente uccisi in operazioni militari condotte dalle forze alleate contro gli islamisti.
Obama deve dire con chiarezza agli americani ed europei disposti ad ascoltarlo che, sebbene nella stragrande maggioranza i musulmani non siano terroristi, quasi tutti i terroristi sono musulmani, ed è per questo che si rende necessario il profiling per setacciare i possibili nemici.
Un esercito impegnato su un teatro troppo esteso, contro un nemico male identificato, sorretto da un fronte interno troppo esausto, non offre una concreta strategia di successo. Meglio dire alla gente chiaro e tondo che il nemico è l’estremismo islamista che vuole imporre il suo credo con la spada, e che una sconfitta significherebbe la fine dei valori occidentali di democrazia, pluralismo e diritti delle minoranze.

(Da: Jerusalem Post, 4.1.10)