Ci vorrebbe una quarta rivoluzione democratica

In attesa dei risultati delle elezioni israeliane, una riflessione sulle sfide delle democrazie: "I paesi hanno scoperto che non è facile essere progressisti e liberali quando i tuoi vicini diventano sempre più aggressivi, illiberali e intolleranti: un’esperienza che Israele ha dovuto fare prima degli altri"

Di Seth J. Frantzman

Seth J. Frantzman, autore di questo articolo

I milioni di israeliani che votano nelle elezioni del 9 aprile 2019 partecipano di fatto a un processo rivoluzionario. Votare in una democrazia e partecipare all’elezione di un nuovo governo è un privilegio. Nel corso della storia umana, solo una manciata di paesi sono stati in grado di creare e preservare istituzioni democratiche. Con tutti i suoi difetti, Israele è uno di quei pochi.

Israele sta vivendo un periodo che altre democrazie hanno affrontato o si troveranno ad affrontare, uno snodo che dovrebbe essere definito la “terza rivoluzione democratica”.

La prima rivoluzione democratica fu la fondazione dello Stato. Il vero e proprio miracolo di darsi e difendere una democrazia è un fatto eccezionale, poiché tutte le democrazie nascono fragili. La seconda rivoluzione fu nel 1977, quando avvenne un cambiamento di potere. Questo tipo di cambiamento si è verificato in vari periodi anche in altri paesi – come Turchia, India, Messico, Italia – quando hanno visto disintegrarsi i “partiti fondatori ” del consenso generale ed emergere una nuova formazione, di solito sulla destra. Fu così, ad esempio, l’ascesa al potere del Bjp (Partito del Popolo) in India nel 1996, o di Silvio Berlusconi, che salì al potere in Italia per la prima volta nel 1994.

Poi arriva la terza rivoluzione democratica, quando l’indebolimento della destra e della sinistra tradizionali comporta che partiti più piccoli riescono a farsi strada, oppure che la destra e la sinistra vengono sostanzialmente alterate dall’interno. Nelle grandi democrazie bipartitiche come gli Stati Uniti succede che ognuno dei due grandi partiti ha un’ala che viene semplicemente inghiottita da qualche forza nuova, come il Tea Party o i Progressives. In Israele va in modo un po’ diverso, perché ognuno si crea il proprio partito anziché battersi per farsi largo dentro in quelli maggiori. Ma il risultato è lo stesso.

Elezioni in Israele

Il risultato in Israele è una grande centrifuga di partiti centristi, un po’ come quelle galassie che divorano parti di altre galassie e ne generano di nuove. Chiunque abbia seguito la politica in Israele negli ultimi decenni sa che c’è un grande numero di elettori indecisi e mobili, e che ci sono molti centristi populisti che aspettano solo di vedere chi potrebbe prendere il posto dell’ultimo partito populista centrista miracolato alle scorse elezioni. Come in ogni paese, anche in Israele vi sono sostenitori fedeli di partito, persone che votano allo stesso modo in ogni elezione. E vi sono altri che vagano come iceberg da un’estremità verso il centro e viceversa. Israele non ha un partito che offra grandi cambiamenti né un blocco elettorale che voglia grandi cambiamenti.

Viviamo in un periodo di dubbi sul futuro senza precedenti. Non è un fenomeno israeliano, ma globale. Con l’avvento del terrorismo, dell’estremismo religioso e dei movimenti autoritari, il mondo è più cinico di quanto non fosse negli anni ’90. Tra il 1974 e il 1990, almeno 30 paesi erano diventati democratici, secondo uno studio pubblicato nel 1991 dal Journal of Democracy. Ricordo quei giorni degli anni ’90, quando pensavamo che il mondo intero sarebbe diventato democratico e che avrebbero prevalso pace e prosperità. Si chiamava “pace democratica”: la nozione secondo cui le democrazie non si fanno mai la guerra fra loro. A posteriori, oggi vediamo quanto fosse fragile quell’idea e quanto fossimo ingenui. Gli accordi tesi a ridurre le frontiere fin quasi a farle scomparire, come l’accordo di Schengen del 1985 in Europa, sono stati messi a dura prova da migrazioni di massa e crisi di profughi e dalla mancanza di volontà degli stati neo-liberali di stabilire un set di principi con cui affrontare quelle crisi in modo coerente.

Oggi affrontiamo nuove sfide, e Israele è in prima linea. A dispetto degli stereotipi della stampa occidentale che ritraggono Israele come nient’altro che una corte per il primo ministro Benjamin Netanyahu, chiamandolo “Re Bibi” o cose del genere, in realtà Israele è uno dei paesi più complessi e diversificati del mondo. Un tempo i critici di Israele amavano definirlo un “anacronismo”, uno stato-nazione in un’epoca in cui tutti quanti tendevano a non avere più nazioni “etniche”, ma un unico villaggio globale. La realtà, oggi, è che la maggior parte dei paesi tende verso l’insularità, riscoprendo le radici nazionali e sfidando l’idea che le storie nazionali debbano essere annacquate in una sorta di unico piatto amalgama globale.

“Non è facile essere progressisti e liberali quando i tuoi vicini diventano sempre più aggressivi, illiberali e intolleranti”

Si tratta di una risposta naturale alle sfide dall’esterno. I paesi hanno scoperto che non è facile essere progressisti e liberali quando i tuoi vicini diventano sempre più aggressivi, illiberali e intolleranti. Un’esperienza che Israele ha dovuto fare ben prima degli altri, per cui è diventato molto più apertamente “di destra” nell’abbracciare un nazionalismo robusto e muscoloso.

Ma Israele non è la caricatura che a tanti piace dipingere. In quale altro luogo si vedono in televisione annunci elettorali sia in russo che in arabo? In quale altro luogo si ha una tale gamma di partiti (39 in questa tornata), da quelli più religiosi o ultra-ortodossi a quelli più laici o laicisti? In quale altro posto vi sono così tanti temi da discutere? La politica in Israele non è esente dai trucchi e dagli scandali di tutte le campagne politiche, ma è anche di forte ispirazione.

C’è un elefante nella stanza delle elezioni israeliane, ed è il sempre minore interesse a lacerarsi su cosa ne sarà effettivamente, a lungo termine, del conflitto di Israele con Gaza e del controllo sulla Cisgiordania. Nonostante tutte le promesse di annessione o di usare “il pugno di ferro col terrorismo”, la realtà è molto più sfumata. Israele ha ben pochi margini di manovra e poche prospettive a lungo termine per entrambe quelle aree. E viene generalmente riconosciuto che, sebbene vi sia un amplissimo consenso sulla sicurezza, vi è anche un ampio consenso sul proseguire con lo status quo nel timore che far ballare la barca da qualunque parte possa causare solo nuove e peggiori crisi.

Qualunque risultato esca dalle elezioni, il nuovo governo sarà espresso da una coalizione che rispecchierà in generale il consenso in Israele. Ciò significa anche che non verranno affrontate questioni più ampie, come le questioni relative al rapporto fra stato e religione. Si può additare questo fatto come una sconfitta della democrazia israeliana, ma è una sconfitta assai diffusa in tutte le democrazie. Da tempo le democrazie non cercano di  fare grandi cambiamenti: tendono verso il gradualismo, indipendentemente da quante persone si vantino d’aver impresso grandiosi “cambiamenti”: che sia l’amministrazione americana di Donald Trump, o la Brexit nel Regno Unito, o il governo populista italiano. Guardando attentamente si vedrà che non ci sono stati grandi cambiamenti a livello nazionale. Dopotutto, il Regno Unito non è ancora riuscito ad abbandonare l’Unione Europea, Trump non ha davvero realizzato la maggior parte delle cose che aveva detto che avrebbe fatto a livello nazionale, e il governo italiano non sembra avere una vera visione su come affrontare la crisi dei rifugiati e dei migranti e il debito pubblico.

Ci vorrebbe una quarta rivoluzione democratica per affrontare questi grandi problemi sistemici.

(Da: Jerusalem Post, 8.4,19)