Collegamento tra terra e cielo

A proposito del nuovo, spettacolare ponte all’entrata di Gerusalemme

Da un articolo di Emanuel Feldman

image_2135Dopo una curva sulla strada per Gerusalemme, ecco, improvvisamente ti colpisce: slanciato in alto verso il cielo, il nuovo, possente ponte all’ingresso della città. Ti fermi un momento proprio sotto, getti indietro la testa e guardi in su. Non puoi fare a meno di sentirti sopraffatto dalla sua mole e dalla sua presenza torreggiante, e rimani un attimo senza respiro.
Ma poi chiedi: Che cos’è? Certo, è un ponte che porta in città, ma è chiaramente più di questo. Che cosa rappresenta, posto che rappresenti qualcosa? È un’astrazione culturale o ha qualche significato?
Se lasciamo correre l’immaginazione, la sua presenza dominante potrebbe essere una metafora per l’ascesa dell’anima ebraica che entra in quel luogo di santità che è Gerusalemme. O forse la sua forma ad uccello incarna la grazia e la bellezza del volo, evocando l’eterna brama dell’uomo a volare staccandosi dai confini della terra per raggiungere vette di spiritualità. Il suo biancore luccicante rappresenta forse la purezza della città santa? I suoi cavi simili a corde, così reminiscenti del più alto ponte del mondo, il viadotto Millau nel sud della Francia, sembrano legare alla terra questo uccello in ascesa. Se i cavi fossero recisi, forse l’intera imponente creatura fluttuerebbe verso il cielo?
La sua stessa altezza – 120 metri circa – ci costringe ad alzare gli occhi verso il cielo, creando in noi un senso di umiltà, suggerendoci sottilmente di cambiare le nostre prospettive e vedere la vita non dal nostro limitato raggio visivo terreno, ma dai più vasti orizzonti celesti. Potrebbe tutto questo essere un simbolo del collegamento tra cielo e terra, tra lo spirituale e il fisico, un collegamento che è l’essenza dell’ebraismo, e l’essenza della vera Gerusalemme?
Sì, forse. È facile lasciarsi trascinare. Ad alcuni, i cavi e la forma del ponte suggeriscono una gigantesca arpa colossale, l’arpa di re David. Dopo tutto, che cosa potrebbe essere più adatto di un’arpa all’ingresso della città di David? Venite – sembra dire – venite nella città che David amava tanto, per la quale egli e la sua arpa cantavano in modo tanto eloquente: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia mano destra…” (Salmi, 137:5). Era la stessa arpa, dolce ed armoniosa, che portava tranquillità al melanconico re Saul quando la sua anima era tormentata da spiriti maligni (I Samuele, 16:14). Giacché l’arpa è lo strumento di chi canta con dolcezza Israele, e la sua voce è calma e spirituale. L’arpa fa eco a tutta la vita di David. Con un’immagine espressiva, i saggi ci dicono che un’arpa pendeva sopra il suo letto, e che a mezzanotte il vento toccava le sue corde, la musica svegliava David ed egli si alzava dal letto per farsi assorbire dalla Torah e dal culto divino fino alle luci dell’alba (Talmud Brachot, 3). Gerusalemme e l’arpa del re David: se questo è quello che rappresenta il nuovo ingresso a Gerusalemme, si tratta di un’ abbinamento ispirato. Suggerisce la musica delle sfere celesti che ringiovanisce, porta la pace e ci ricorda da dove veniamo. Che cosa potrebbe “essere più Gerusalemme” di così?
Ma non tutti sarebbero d’accordo: questa nuova costruzione eccezionale ricorda ad alcuni qualcosa di molto diverso dall’arpa. A causa delle sue grandi proporzioni, evoca in essi l’immagine di una moderna, orgogliosa Torre di Babele. Con la torre, gli antichi cercarono di dominare non solo la terra, ma anche il cielo (Genesi, 11). Vedete come siamo forti e potenti, dicevano. Guardate il nostro talento e la nostra tecnologia, come costruiamo una struttura che è la più alta nel nostro mondo. Nulla può far fallire i nostri desideri, nessun essere – e nessun Essere – può ostacolarci. Possiamo tirare un pugno in faccia al cielo. Invaderemo i cieli e daremo battaglia all’Uno che vi abita, e lo renderemo vano ed elimineremo il suo dominio su di noi. Egli vuole che viviamo a modo suo: noi vogliamo vivere a modo nostro. Egli chiede che adoriamo solo lui, noi adoreremo chi vogliamo. Egli ci impone disciplina, noi vivremo con la libertà di fare quello che vogliamo, quando vogliamo, come vogliamo. Questa torre ci darà il dominio sul mondo. Dimostrerà che noi, e non Lui, siamo i sovrani dell’universo (Midrash Tanhuma, Gen. 11).
Così, con un alto costo di vite e di risorse, costruirono la loro gigantesca torre per raggiungere il cielo e distruggere Dio stesso.
Ma, per quanto l’uomo resista e occasionalmente si offenda per i limiti che Dio ci pone, Egli non può essere distrutto. E così Dio scatena la sua giustizia su di loro. Volevano sbarazzarsi di Dio, invece Egli si sbarazza di loro e li sparge su tutta la superficie della terra, dando loro una babele di lingue, una cacofonia di suoni, una confusione di linguaggi dove nessuno capisce quello che dice l’altro, e dove nessuno ascolta, a nessuno importa, e ogni uomo si allontana nella propria direzione, creando solo caos e distruzione. Essi divengono, insomma, i precursori di un’umanità senza Dio. Qualcuno potrebbe aggiungere: precursori dell’umanità contemporanea.
Per alcuni gerosolimitani di oggi, il nuovo ponte è una specie di Torre di Babele, un simbolo di spacconeria vanesia, di esibizionismo nazionale, di sperpero di risorse preziose, negazione dell’esortazione del profeta Zaccaria a non vantarsi “della propria forza e della propria potenza”.
Quale immagine trasmette in realtà questo nuovo ingresso a Gerusalemme: l’arpa spirituale di David o l’arrogante Torre di Babele? Rappresenta l’umiltà, la calma che dà sollievo, la spinta verso Dio, o suggerisce arroganza, avidità e insolenza? È la sottomissione di David al volere di Dio o è l’autopromozione dell’uomo moderno? È l’armonia dell’arpa o la cacofonia di una Babele?
La risposta è nel vento che mormora di notte tra i suoi cavi. Il suono ci sveglia e dobbiamo affrontare delle scelte. Possiamo, come David, sorgere dal nostro sonno collettivo e volgerci verso imprese significative o perfino divine; oppure possiamo ignorare la musica celeste, tirarci le coperte sugli occhi e, come la generazione della Torre, rimanere ignari delle necessità di quanti ci circondano, preoccupati solo dei nostri desideri e dei nostri bisogni, comodi nella nostra indolenza, convinti che noi e nessun altro siamo i veri sovrani dell’universo.
Sebbene l’ingresso sia tecnicamente completato, se infine sarà un’arpa di David o una Torre di Babele non sta nella visione dell’architetto, ma nelle mani di quelli di noi che là risiedono. Dipende tutto da come viviamo la nostra vita. In ultima analisi, sarà sempre un lavoro in corso: proprio come siamo tutti noi.

(Da: Jerusalem Post, 20.05.08)