Colloqui a Washington: le esperienze passate non inducono all’ottimismo

E se lo stato che Netanyahu può offrire non sarà neppure lontanamente lo stato che Abu Mazen può accettare?

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3790Scrive Orly Azoulay, su YnetNews: «A Washington, con tono tra il beffardo e il commiserevole, chiamano la questione israelo-palestinese “il cocco di Kerry”. Sin dal momento in cui ha assunto l’incarico, il segretario di stato non ha mollato. Focalizzato sull’obiettivo, ha certamente dimostrato quanto sia determinato ad arrivare a una soluzione a due stati, tanto da dover parare bordate di critiche dai mass-media americani secondo i quali starebbe dedicando al conflitto israelo-palestinese troppo tempo che farebbe meglio a investire sulla Siria insanguinata dalla guerra civile o sull’Egitto che è al collasso. Ma John Kerry è convinto di poter fare entrambe le cose. E il presidente Obama gli ha dato luce verde, quando Kerry gli ha spiegato che si sarebbe adoperato per la pace a qualunque costo perché o la si fa ora, o mai più. Non che Obama fosse entusiasta né veramente convinto. In effetti, durante il suo primo mandato ha appreso un paio di lezioni circa la storia del conflitto israelo-palestinese, quando era lui quello pieno di entusiasmo e di fiducia di poter arrivare a un accordo di pace. Nel secondo mandato ha preso nettamente le distanze dalla questione, al punto quasi di rinunciare. Finché non è arrivato Kerry, che ha convinto il presidente a dargli un’ultima possibilità. Obama ha accettato con una scrollata di spalle, come per dire: “Quando arrivate al dunque, portatemi carta e penna”. L’America non è molto convinta della possibilità che i semi piantati da Kerry in Medio Oriente sboccino in un vero accordo di pace ai colloqui di Washington. La capitale americana ha già ospitato troppe volte colloqui analoghi che si sono conclusi con un nulla di fatto. Abbastanza sorprendentemente Obama non ha nemmeno rilascio una pubblica dichiarazione per complimentarsi del risultato raggiunto dal suo segretario di stato. Ora, in vista della ripresa dei negoziati, l’ospite americano sta già preparando il portafoglio. A entrambe le parti è stato detto che gli Stati Uniti non esiteranno a puntare il dito contro quella che dovesse abbandonare i colloqui prima di essere arrivati a una soluzione. D’altra parte, se si faranno progressi e si arriverà a un accordo, gli Stati Uniti sanno già che dovranno aprire il portafogli: aiuti a Israele per approntare i suoi nuovi confini, aiuti ai palestinesi per costruire il nuovo stato».
(Da: YnetNews, 22.7.13)

Scrive Herb Keinon, sul Jerusalem Post: «Il primo settembre 2010, davanti al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), all’allora presidente egiziano Hosni Mubarak e al re giordano Abdullah II riuniti alla Casa Bianca per l’inizio dei negoziati diretti israelo-palestinesi dopo un’interruzione di due anni, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama disse, fra l’altro: “Gli Stati Uniti saranno parte attiva. Sosterremo chi è pronto a fare scelte difficili in nome della pace. Ma voglio essere molto chiaro. In fin dei conti gli Stati Uniti non possono imporre una soluzione: non possiamo desiderare un accordo più delle parti stesse”. Quei colloqui durarono tre settimane e si interruppero quando i palestinesi li abbandonarono perché Israele non era disposto a prolungare il congelamento delle attività edilizie in Cisgiordania oltre i dieci mesi stabiliti». Continua l’editorialista: «Talvolta vale la pena chiedersi se è buona cosa forzare le parti a fare qualcosa che non vogliono o non possono fare. Cosa accadrà se le parti, arrivate al tavolo negoziale, si troveranno di fronte a un muro che pare insuperabile? Cosa succederà se lo stato palestinese che Netanyahu potrà offrire ad Abu Mazen (demilitarizzato, senza i blocchi dei principali insediamenti, approdo finale per i tutti i profughi palestinesi e i loro discendenti, con il controllo israeliano sul Muro Occidentale “del pianto” e una presenza militare israeliana sul fiume Giordano) non sarà neppure lontanamente lo stato che Abu Mazen può accettare? Cosa accadrà quando i colloqui si interromperanno se – per una marea di motivi che vanno dalle turbolenze nella regione, alla natura bicefala dell’entità palestinese (Hamas contro Fatah), al forte scetticismo della componente di destra nel governo israeliano – le attuali condizioni non risulteranno propizie per un accordo sullo status definitivo? Nell’aprile del 2002, in un’intervista alla Fox Tv venne chiesto a Dennis Ross, che due anni prima era stato il capo negoziatore americano per il Medio Oriente durante il summit di Camp David (il cui fallimento molti considerano l’origine dell’intifada delle stragi), quale fosse a suo parere il motivo per cui Yasser Arafat aveva detto no, facendo naufragare l’accordo. “Sostanzialmente – rispose Dennis Ross – perché non credo che potesse porre fine al conflitto. Avevamo una clausola fondamentale, in quell’accordo, e la clausola era: questa è la fine del conflitto. Ma tutta la vita di Arafat era stata dominata dalla lotta e dalla causa. Tutto ciò che aveva sempre fatto come capo dei palestinesi era stato tenersi aperte le altre opzioni, senza mai chiudere una porta. Lì, gli veniva chiesto di chiudere la porta. Per lui, porre fine al conflitto significava porre fine se stesso”. Quel che Ross disse di Arafat vale, in misura minore, anche per Abu Mazen. Arrivato a 78 anni, sarà disposto a passare alla storia come il leader palestinese che ha definitivamente chiuso la porta alle aspirazioni massimaliste palestinesi, a cominciare dal “diritto” dei profughi e dei loro discendenti di stabilirsi dentro Israele pre-‘67? E il suo popolo (e Hamas è una cospicua parte del suo popolo) vuole davvero che lui lo faccia? Kerry sta forzando le cose, trascinando le parti al tavolo negoziale. Per questo si è già guadagnato tanti encomi. Ma quello che è positivo per Kerry e per la posizione dell’America nella regione, lo è anche necessariamente per israeliani e palestinesi?»
(Da: Jerusalem Post, 22.7.13)

Scrive l’editoriale del Jerusalem Post: «L’esperienza ha dimostrato che ogni serio progresso nei colloqui di pace con una fazione palestinese “moderata” porta inevitabilmente a tentativi violenti da parte di altri gruppi palestinesi estremisti di silurare la soluzione negoziata, spesso con la tacita approvazione della dirigenza “moderata”. Così avvenne negli anni ‘90 dopo la firma degli accordi di Oslo, e di nuovo dopo il summit di Camp David del 2000, quando il corrotto capo dell’Olp Yasser Arafat diede luce verde a Hamas e Jihad Islamica per lanciare attentati suicidi e attacchi terroristici contro civili israeliani. All’epoca Arafat disponeva di una vasta base di sostegno tra i palestinesi ed era il rappresentante legittimo, sebbene corrotto e autocratico, del popolo palestinese. Oggi la situazione è diversa. Anche se il presidente Abu Mazen ha proseguito col retaggio autocratico di Arafat, tuttavia non ha lo status del leader. Abu Mazen non ha un mandato dal suo popolo: il suo incarico, che ha avuto inizio quando vinse le elezioni presidenziali del gennaio 2005, è scaduto sin dal gennaio 2009. La spaccatura nella dirigenza palestinese tra striscia di Gaza controllata da Hamas e Cisgiordania controllata dall’Autorità Palestinese ha finora impedito che si tenessero le elezioni. In sostanza, Abu Mazen è stato un presidente in “prorogatio”, senza mandato e senza poteri su Gaza, per un altro intero quadriennio, e più. Non sorprende che debba fronteggiare l’opposizione al rinnovo dei colloqui con Israele da parte di quasi tutte le organizzazioni palestinesi: dagli islamisti di Hamas e Jihad Islamica, ai movimenti più laici come Iniziativa Nazionale Palestinese di Mustafa Barghouti, al Partito del Popolo Palestinese (comunisti), ai Fronti Popolare e Democratico per la Liberazione della Palestina (Fplp ed Fdlp). Anche all’interno del suo partito Fatah, Abu Mazen è stato attaccato, in particolare dalla “giovane” guardia, per aver osato accettare negoziati senza prima garantirsi chiare concessioni israeliane sulle richieste palestinesi, in particolare sul riconoscimento come “confini” delle ex linee armistiziali del 1949 e sul blocco totale delle attività edilizie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme est. Abu Mazen paga ora il prezzo per non aver mai preparato il suo popolo, in tutti i novi anni che è stato a capo dell’Olp, ai compromessi necessari per fare la pace con lo stato ebraico». Conclude l’editoriale: «E però, nonostante tutto questo, un accordo globale tra le parti rimane l’unico modo per prevenire la nascita di uno stato bi-nazionale tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano, e dunque assicurarsi che Israele continui ad esistere come stato ebraico e democratico. Ed è anche l’unico modo per i palestinesi di conseguire le loro aspirazioni nazionali: attraverso il dialogo, la buona volontà e le concessioni reciproche, e non attraverso l’aggressione e le minacce».
(Da: Jerusalem Post, 22.7.13)