Colpevole fino a prova contraria (e spesso anche dopo prova contraria)

Forse non sapremo mai come è stata uccisa la giornalista di Al Jazeera, ma una cosa sappiamo per certo: appena c'è modo di accusare Israele, tanti si precipitano a emettere sentenze di colpevolezza senza prove né verifiche

Di Fred Maroun

Fred Maroun, autore di questo articolo

La morte della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh l’11 maggio 2022 durante un’operazione antiterroristica condotta dai soldati israeliani in Cisgiordania ha stata seguita nel giro di poche ore dall’accusa immediata che era stata uccisa da Israele. Il giorno stesso, prima che venisse condotta qualsiasi indagine, Al Jazeera stabilì che era stata “uccisa dalle forze israeliane”. Sempre lo stesso giorno, Middle East Monitor scriveva: “Oggi le forze israeliane hanno assassinato un’icona palestinese”, e Mondoweiss: “Israele uccide la corrispondente veterana di Al Jazeera Shireen Abu Akleh nella Cisgiordania occupata”.

Agli occhi dei mass-media filo-palestinesi, Israele era colpevole senza nessun bisogno di indagini e di prove. Già il giorno successivo, come ha sottolineato David Horovitz su Times of Israel, la “irremovibile narrazione palestinese” era che “non solo Abu Akleh è stata sicuramente colpita dalle truppe israeliane e non eventualmente da colpi palestinesi sparati in modo indiscriminato, ma che è stata deliberatamente presa di mira da Israele per mettere a tacere la voce dei palestinesi”. Il 26 maggio la CNN affermava d’aver concluso, sulla base di una propria indagine, che “Shireen Abu Akleh è stata uccisa in un attacco mirato delle forze israeliane”.

Lo scorso 16 giugno, Al Jazeera ha pubblicato l’immagine di un proiettile sostenendo che è quello che ha ucciso Abu Akleh. Israele ha chiesto di poter esaminare quel proiettile sin dal giorno in cui la giornalista è stata uccisa, e successivamente ha ripetuto molte volte la richiesta, ma l’Autorità Palestinese non l’ha mai messo a disposizione e rifiuta la proposta di Israele di condurre un’indagine congiunta. Al Jazeera afferma che si tratta di un proiettile “calibro 5,56 mm, lo stesso usato dalle forze israeliane” (senza specificare che è usato anche da miliziani palestinesi, e comunque non è quello usato dai tiratori scelti israeliani ndr). Non abbiamo modo di sapere se il proiettile mostrato da Al Jazeera sia effettivamente il proiettile che ha ucciso Abu Akleh. Considerando che Al Jazeera aveva già giudicato Israele colpevole solo poche ore dopo la morte della giornalista, la sua credibilità e obiettività è nella migliore delle ipotesi un po’ dubbia.

Vignetta diffusa in internet meno di 24 ore dopo la morte della giornalista di Al Jazeera. Israele è colpevole a prescindere, senza alcun bisogno indagini e prove

Forse non sapremo mai come è stata uccisa Abu Akleh. Ma una cosa la sappiamo per certo: non appena c’è un’occasione per muovere accuse contro Israele, i mass-media filo-palestinesi si precipitano a emettere sentenze di colpevolezza senza alcun bisogno di prove e verifiche, e alcuni organi d’informazione internazionali li seguono a ruota fin troppo volentieri. La morte di Abu Akleh, avvenuta a Jenin in Cisgiordania, mi ricorda un’altra accusa contro Israele: il cosiddetto “massacro di Jenin”.

Una battaglia ebbe luogo a Jenin nei primi giorni di aprile 2002 durante la seconda intifada (l’intifada delle stragi suicide contro la popolazione israeliana ndr), quando i soldati israeliani entrarono a Jenin nell’ambito dell’operazione Scudo Difensivo alla ricerca dei terroristi responsabili di una serie di sanguinosi attentati. Fonti palestinesi proclamarono immediatamente che era stato perpetrato un “massacro” (l’allora capo negoziatore dell’Olp Saeb Erekat affermò falsamente alla CNN che i soldati avevano “massacrato” 500 palestinesi, una menzogna che successivamente persino le Nazioni Unite respinsero come insensata: il reale bilancio dei caduti nella battaglia di Jenin fra soldati e terroristi fu di 23 israeliani e 52 palestinesi ndr). Amnesty International, Human Rights Watch e vari organi d’informazione internazionali rilanciarono l’accusa senza alcuna prova. Da allora, l’affermazione che vi sia stato un “massacro” di civili a Jenin è stata ampiamente sconfessata e screditata. Come scrisse il Washington Post il 3 maggio 2002, “il ‘massacro di Jenin’ è più di una finzione: è una bufala”. Ma nei mass-media filo-palestinesi la menzogna è stata continuamente ripetuta e lo è ancora oggi. Il Middle East Monitor ha ripetuta nell’aprile 2020, Al Jazeera nell’aprile 2018 (per non parlare delle innumerevoli proiezioni del falso documentario Jenin, Jenin di Mohammad Bakri ndr).

In un mondo ideale, la tattica di muovere accuse palesemente false non dovrebbe funzionare perché la gente dovrebbe essere in grado di vedere al di là di esse. Ma la tattica funziona perché troppe persone vedono quello che vogliono vedere. La durevole menzogna di Donald Trump secondo cui ha vinto le elezioni presidenziali del 2020 ne è un ottimo esempio: pare che oltre il 40% degli americani ci creda ancora.

Le bugie funzionano (più o meno), ma cosa ci hanno guadagnato i palestinesi? Niente. Le bugie non possono costruire uno stato più di quanto lo possa fare il terrorismo palestinese. In fin dei conti, dal punto di vista dell’aspirazione palestinese all’autodeterminazione, l’uccisione (verosimilmente accidentale) di Shireen Abu Akleh durante uno scontro a fuoco non cambia le cose. Se verrà accertato che un soldato israeliano ha agito in modo sbagliato, quel soldato sarà punito. Ma che ciò accada o meno, le ragioni per cui i palestinesi non hanno un proprio stato rimarranno tali e quali. I mass-media filo-palestinesi, di cui Abu Akleh faceva parte, continueranno a ignorare quelle ragioni e continueranno a parlare del conflitto in modo disonesto.

(Da: Times of Israel, 17.6.22)