Combattere per la libertà (di essere se stessi)

Non vi è nulla che la Francia avrebbe potuto fare, a parte non essere più la Francia, per evitare quegli attacchi

Editoriale del Jerusalem Post

I colori della Francia sulle Mura di Gerusalemme

I colori della Francia sulle Mura di Gerusalemme

E’ del tutto naturale cercare dei motivi logici dietro alle azioni umane. Vale anche per il terrorismo islamico. Ma a volte bisogna ammettere che l’unico movente è una volontà di distruzione fine a stessa.

Le stragi dello scorso gennaio alla sede di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Cacher di Parigi, per esempio, non possono e non devono essere attribuite alle politiche della Francia nelle banlieue, i progetti di edilizia abitativa nelle periferie a basso reddito abitate in modo sproporzionato da immigrati musulmani. Non dobbiamo permetterci di incolpare i vignettisti satirici francesi di Charlie Hebdo per aver superato i limiti del buon gusto. Non sono stati assassinati per il reato di “cattivo gusto”, e non sono in alcun modo responsabili dell’attacco omicida perpetrato contro di loro da estremisti islamici. Allo stesso modo, i terroristi animati da un’interpretazione distorta dell’islam che hanno perpetrato i miserabili attentati costati la vita a più di 130 persone venerdì scorso a Parigi non devono essere spiegati come una conseguenza del coinvolgimento della Francia nella guerra allo “Stato Islamico” (ISIS) in Siria e Iraq. Non vi è nulla che la Francia avrebbe potuto fare – a parte non essere più la Francia – per evitare quegli attacchi.

Bisogna abbandonare l’ostinato tentativo di trovare un motivo logico dietro al terrorismo islamista. L’argomento socio-economico della povertà e dell’alienazione non fornisce alcuna spiegazione. E’ vero che nelle banlieue dilagano antisemitismo e anti-occidentalismo, ma i profili dei jihadisti francesi semplicemente non corrispondono alla lettura sociale. In effetti, molti dei musulmani francesi che vanno in Siria sono giovani della classe media, alcuni dei quali europei convertiti all’islam. Si tratta di persone che hanno goduto dei benefici della società e dell’istruzione francese e che ricambiano con la violenza omicida. Amedy Coulibaly, il terrorista che ha fatto la strage all’Hyper Cacher, aveva legami con Mohamed e Mehdi Belhoucine. Entrambi erano eccellenti studenti – Mohamed aveva fatto studi avanzati d’ingegneria, Mehdi di elettromeccanica – e provenivano da una famiglia borghese che viveva in una casa di proprietà. Entrambi risultano ora in Siria a combattere per l’ISIS.

Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda il terrorismo palestinese, che ha poco a che fare con la “occupazione” e molto a che fare con l’indottrinamento. Non è l'”occupazione” che ha portato all’omicidio di Ya’akov Litman e di suo figlio Netanel, presso Otniel, a sud di Hebron, lo stesso venerdì degli attentati di Parigi. Quell’omicidio a sangue freddo è stato il frutto di un atto consapevole da parte di un assassino jihadista islamista.

“Prima resero pericoloso essere ebreo in Francia. Poi resero pericoloso essere francese in Francia”

Certo che i terroristi che venerdì scorso hanno massacrato indiscriminatamente parigini innocenti vogliono qualcosa di preciso. Ma la Francia non può cedere alle loro richieste perché quello che vogliono i fanatici musulmani è istituire un califfato medievale al posto della Francia democratica. Ciò che offende mortalmente i fanatici è la libertà, l’uguaglianza e la fraternità che proteggono il diritto di espressione di pubblicazioni come Charlie Hebdo, e dei suoi lettori, o di artisti come gli Eagles of Death Metal e del loro pubblico al teatro Bataclan. Ma la Francia cesserebbe di essere la Francia se, per placare i fanatici violenti, abbandonasse quei principi e quelle libertà.

Applicando la stessa logica al conflitto israelo-palestinese si giungerebbe a conclusioni altrettanto paradossali. I palestinesi sono furibondi perché i loro ripetuti tentativi di distruggere lo stato ebraico – con l’aiuto degli eserciti arabi, dei boicottaggi, dell’assedio diplomatico e propagandistico, della delegittimazione, del terrorismo – sono tutti falliti. Ma se Israele dovesse dare ai palestinesi quello che chiedono, Israele cesserebbe di esistere come stato ebraico: il cosiddetto “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi (in realtà di milioni di discendenti dei profughi palestinesi) potrebbe annullare la maggioranza ebraica all’interno delle linee pre-’67, mentre contemporaneamente verrebbe istituito uno stato palestinese ostile e senza garanzie su linee di confine praticamente impossibili da controllare e difendere, che permetterebbe ai palestinesi di Cisgiordania (e ad ogni loro possibile alleato esterno) di continuare gli attacchi terroristici contro Israele come ha fatto Hamas dalla striscia di Gaza, sgomberata da Israele nel 2005.

Come ha sottolineato il primo ministro Benjamin Netanyahu, c’è un filo comune che collega i terribili attentati a Parigi e la lotta di Israele contro il terrorismo islamista. “Mi aspetto il sostegno internazionale per Israele quando si batte contro il terrorismo – ha detto Netanyahu dopo gli attacchi di Parigi – così come Israele sostiene la Francia e gli altri paesi. Non si può dire: questi sono terroristi buoni e questi sono terroristi cattivi. Il terrorismo è terrorismo”.

Non ci può essere alcun compromesso con quelli come l’ISIS, Hamas o Hezbollah, perché il compromesso significa perdere le libertà che rendono la vita degna di essere vissuta. L’unica opzione è battersi.

(Da: Jerusalem Post, 16.11.15)