Come gli israeliani hanno contenuto il virus (finora)

Israele è un paese abituato da sempre ad affrontare con senso civico situazioni di emergenza nazionale. Ma oggi bisogna ripetere: attenzione, non è ancora finita

Operatrici della sanità israeliana (ebrea e musulmana) nella Giornata dell’Indipendenza 2020

“Come mai Israele è riuscito a contenere in maniera così efficace il coronavirus? – si domanda Gabriele Genah nella rassegna-stampa del Corriere della Sera (5.5.20) – Come è possibile che in una nazione di nove milioni di abitanti siano decedute meno di 250 persone mentre a New York, che ha più o meno la stessa popolazione, i morti sono circa 18mila?”.

“Eppure siamo gente abituata a scambiare baci e abbracci – nota David Horovitz su Times of Israel (30.4.20) – e i flussi turistici non erano proporzionalmente molto meno massicci da noi che in paesi come Italia, Spagna e Regno Unito”.

“Una risposta – continua Genah – potrebbe essere la differenza nella densità abitativa. Sì, ma interi quartieri ortodossi a Gerusalemme e non solo, quelli per intenderci dove la vita comunitaria raggiunge l’apice e in un appartamento vivono sei-sette persone, sono stati chiusi con un discreto successo. Senza contare che il paragone non regge neanche con altri paesi simili per numero di abitanti come Svezia (circa 3mila) e Belgio (quasi 8mila)”.

“La Svezia – osserva ancora Horovitz (Times of Israel, 30.4.20) – che ha scelto un approccio radicalmente meno interventista, ha circa 10 volte più morti di Israele su una popolazione di 10 milioni solo leggermente più grande di quella israeliana. Il Belgio, con 11 milioni di abitanti, ha 34 volte più vittime di Israele. Gli Stati Uniti, con 36 volte la popolazione d’Israele, hanno avuto quasi 300 volte più morti”.

Il mercato Mahne Yehuda di Gerusalemme durante la chiusura anti-coronavirus

“Secondo Times of Israel (4.5.20) – riassume Genah – tre sono stati i fattori che si sono rivelati decisivi: la rapidità nel prendere le misure contenitive quando ancora non c’erano focolai significativi nel paese; le prestazioni del servizio sanitario nazionale e il comportamento della popolazione. Su quest’ultimo aspetto si focalizza anche Micah D. Halpern sul Jerusalem Post (29.4.20). La maggioranza dei cittadini ha infatti seguito e rispettato alla lettera le indicazioni del governo. E questo non per una qualche virtuosità innata, ma perché gli israeliani sono abituati, loro malgrado, alle crisi nazionali (basterebbe ricordare le maschere anti-gas e le stanze sigillate durante la guerra del Golfo del 1991). La sicurezza è da sempre presa molto sul serio: se un cittadino vede un pacco o un movimento sospetto, è abituato a segnalarlo. Oggi, allo stesso modo, in tanti segnalano chi non segue i protocolli sanitari: non si tratta di fare la spia – spiega Genah – ma di proteggere sé stessi e gli altri. E dove il buon senso non arriva, ci pensano i servizi segreti: già da un mese ormai lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, usa le proprie risorse tecnologiche per tracciare i potenziali vettori del virus. Una scelta che da un lato ha generato un serrato dibattito sul confine fra sicurezza e privacy (la Corte Suprema ha prolungato questa licenza per altre tre settimane, salvo poi chiedere una regolamentazione da parte del parlamento), dall’altro avrebbe permesso di individuare 5mila casi (sui 16 mila totali). Significativo è stato anche il numero di test effettuati, ad oggi circa 250mila, di cui 100mila in postazioni drive-in sparse per il paese e 90mila in appartamenti privati. Senza contare misure meno ortodosse, come l’analisi delle feci, che contengono tracce del coronavirus: una metodologia messa in pratica da un gruppo di scienziati che dall’avvio dell’emergenza monitora le acque di scarico di tutto il paese e che permette di tenere d’occhio la presenza del virus nelle varie aree. Sarà cruciale per prevenire un’eventuale seconda ondata”.

Soldati israeliani e volontari arabi impegnati nella distribuzione di cibo e forniture medicinali alle famiglie bloccate nei sobborghi di Gerusalemme est dalla chiusura anti-coronavirus

“Naturalmente – sottolinea Horovitz (Times of Israel, 30.4.20) – anche in Israele tutto questo ha comportato un altissimo costo in termini di tracollo economico e di impatto sulla salute mentale delle persone, tanto che in un’intervista televisiva di qualche giorno fa è stato chiesto a Moshe Bar Siman-Tov, direttore generale del Ministero della sanità, se Israele non avesse reagito in modo eccessivo. Imperturbabile, Bar Siman-Tov ha risposto: ‘Possiamo fare un controllo molto semplice. Eravamo arrivati a un ritmo in cui il numero di nuovi malati raddoppiava ogni tre giorni. A un certo punto, in un solo giorno il numero di pazienti gravemente malati è aumentato del 50%. Se questa tendenza fosse continuata, oggi avremmo più di 600.000 malati, di cui oltre 10.000 bisognosi di ventilatore, e molte migliaia di persone sarebbero morte’. Bar Siman-Tov ha poi fatto uno dei confronti che abbiamo già citato: ‘Non ci mancano i gruppi di controllo: basta guardare al Belgio’. Tutti questi numeri – continua Horovitz – ci dicono che Israele ha qualche cauto motivo di incoraggiamento. Le decisioni prese dai leader e dalle autorità sanitarie non sono state sempre seguite alla perfezione, ma in generale i cittadini vi hanno prestano attenzione, e hanno capito che erano state progettate per massimizzare la difesa contro un virus misterioso che colpiva in modo sproporzionato gli anziani: i nostri genitori, i pionieri che hanno costruito questo paese. Per ora, numeri e confronti indicano che la strategia è stata decisamente efficace”.

“Dopo due mesi di chiusure e restrizioni – riflette l’editoriale del Jerusalem Post (5.5.20) – Israele sembra finalmente tornare a una parvenza di normalità. I numeri dei contagi sono nettamente diminuiti e siamo finalmente in grado di riaprire l’economia, un passo alla volta. Bisogna anche dire, però, che in questi due mesi abbiamo visto cosa succede quando un esercito non è preparato per una guerra importante. Nelle scuole elementari d’Israele i bambini vengono addestrati a tutti gli scenari che potrebbero cogliere il paese di sorpresa, come attacchi aerei o terremoti. Il Comando Fronte Interno delle Forze di Difesa israeliane istruisce costantemente le persone su come trovare il rifugio più vicino in caso di attacco missilistico. Anche gli edifici sottoposti al piano edilizio nazionale chiamato Tama 38, volto a rafforzare le strutture in vista di terremoti, fanno ormai parte del paesaggio israeliano. Eravamo pronti quasi a tutto. Ma non a una pandemia. E’ vero – prosegue il Jerusalem Post – A quanto pare, abbiamo vinto la prima battaglia. Ma non dimentichiamoci le carenze che abbiamo dovuto constatare in fatto di forniture mediche, di equipaggiamenti protettivi, della quantità di medici e paramedici. Non dimentichiamoci che sono dovuti intervenire il Mossad e le unità d’élite dell’esercito per procurare mascherine e ventilatori. La guerra non è ancora finita. I numeri non sono stabilizzati e gli esperti prevedono una seconda ondata, prima della fine dell’anno, che potrebbe essere più dura della prima”.

Prime riaperture a Tel Aviv

Il direttore del Ministero della salute, Moshe Bar Siman-Tov, ha detto al New York Times (5.5.20) che Israele, per prepararsi alla seconda ondata, sta intraprendendo un massiccio programma da 100mila test sierologici sugli anticorpi per scoprire chi, essendo venuto in contatto con il coronavirus, potrebbe essere immune. “Questa è la missione più importante – ha spiegato Bar Siman-Tov – Fortunatamente la covid-19 ci ha colti [in Israele] nella stagione post-influenzale. Ma non possiamo presumere che non ci sarà una prossima ondata e che non sia in pieno inverso”. Se poi il virus dovesse mutare, aggiunge Bar Siman-Tov, i 2,4 milioni di test sugli anticorpi ordinati agli Stati Uniti e all’Italia potrebbero non avere valore.

Il quotidiano economico israeliano Calcalist (6.5.20) riferisce che il Ministero della sanità si sta attrezzando per una situazione in cui vi possano essere 3.000 pazienti sottoposti a ventilazione, cercando di fare scorte e aggiornare di conseguenza le unità di terapia intensiva israeliane, sulla base di finanziamenti che il Tesoro deve ancora approvare. “Dobbiamo essere pronti per la prossima ondata e sfruttare in modo proattivo il tempo che abbiamo per sistemare le cose al meglio possibile”, ha scritto Bar Siman-Tov in una lettera al consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat.

Conclude su Israel HaYom (6.5.20) Ran Balicer, membro della squadra anti-pandemia del Ministero della sanità israeliano: “Israele ha schiacciato la curva, ma dobbiamo ricordarci più e più volte che non è ancora finita”.