Come ho perso ogni speranza nei palestinesi

Se i palestinesi non avessero accolto il ritiro da Gaza con un aumento dei lanci di Qassam, oggi le cose andrebbero diversamente

Da un articolo di Larry Derfner

image_1290Non vi sarebbero rapimenti, bombardamenti e ammazzamenti, oggi, se i palestinesi non avessero accolto l’uscita di civili e soldati israeliani dalla striscia di Gaza con un aumento dei lanci di missili e razzi contro la popolazione israeliana.
Se i palestinesi avessero letto il disimpegno israeliano della scorsa estate come una “misura per creare fiducia” e avessero risposto allo stesso modo sospendendo i loro attacchi, anziché considerarlo – come hanno fatto – un segno di debolezza che giustificava i loro attacchi, le cose sarebbero andate diversamente.
Se qualcuno, negli anni ’80 o ’90, mi avesse detto che un giorno Israele se ne sarebbe andato da Gaza, la mia previsione sarebbe stata che quel gesto avrebbe sicuramente ammorbidito l’atteggiamento dei palestinesi, avvicinando le posizioni delle due parti. Avrei fatto la stessa identica previsione se qualcuno mi avesse detto che un giorno Israele, nei negoziati, avrebbe offerto ai palestinesi uno stato indipendente sul 100% della striscia di Gaza e sul 97% della Cisgiordania, compresa gran parte della parte araba di Gerusalemme est.
Ma quando Israele è arrivato effettivamente a lasciare Gaza avevo ormai capito che i palestinesi – nel loro insieme, non Mahmoud Abbas (Abu Mazen) o qualche altro moderato senza reale potere – ne avrebbero tratto la convinzione che il terrorismo funziona, e avrebbero continuato a farvi ricorso. La scorsa estate, per avere la pace contavo ormai più sulle reazioni delle Forze di Difesa israeliane che sulle concessioni territoriali. Vale anche oggi, sul confine di Gaza, e un domani sul confine fra Israele e una Cisgiordania post-occupazione.
Sono ancora convinto di ciò che ho sempre pensato: e cioè che Israele non il diritto di governare sui palestinesi, e che governarli è un errore per la sicurezza d’Israele, per cui per Israele mangiarsi l’unico territorio che i palestinesi hanno per se stessi saerbbe allo stesso tempo immorale e sbagliato.
Quello che non credo più è che i palestinesi siano una nazione fondamentalmente razionale e ragionevole, che possano essere convinti ad abbassare le armi e a fare la pace con Israele. Se non per buona volontà, almeno per convenienza. Quello che penso, oggi, è che solo la deterrenza militare israeliana, che ovviamente richiede il ricorso periodico all’uso della forza, può indurre i palestinesi a sospendere i combattimenti.
La mia disillusione nei loro confronti è iniziata dopo i colloqui di Camp David del luglio 2000. Ma non perché in quell’occasione i palestinesi rifiutarono l’offerta israeliana: non erano obbligati ad accettarla, e rifiutarla non faceva di loro dei guerrafondai. Ciò che veramente mi ha lasciato sgomento fu il modo trionfalistico con cui Yasser Arafat e i palestinesi accolsero il fallimento di quei colloqui. Inneggiavano al “nuovo Saladino”, i palestinesi, portando in trionfo Arafat. Mentre il campo della pace israeliano era tramortito e cercava faticosamente di non abbandonarsi alla più nera disperazione, i nostri “partner” esultavano di gioia. Evidentemente c’era qualcosa che non andava, qualcosa di profondamente sbagliato.
Quando è scoppiata l’intifada, ciò che mi ha afflitto non è stato tanto il fatto che i palestinesi fossero scesi in guerra. Dopo Camp David la tensione era alta, Ariel Sharon era andato sul Monte del Tempio con mille poliziotti, le prime sommosse finirono con una mezza dozzina di morti palestinesi: potevo capire uno scoppio di rabbia che durasse una o due settimane. Quello che ha mandato in pezzi la mia considerazione per i palestinesi fu che l’intifada non si fermò più: perché si sentivano troppo eroi col tragico gioco di uccidere e farsi uccidere. Per loro non si trattava della tragedia che deploravano Bill Clinton e gli europei. Era la cosa più grande che potessero fare, presi in una vera spirale di crescente follia. (Di nuovo, Abu Mazen e pochi altri parlarono fin dall’inizio contro questa follia terroristica, ma non contavano nulla).
A quel punto arrivò un’ulteriore disillusione. Dopo che l’intifada era scoppiata, i palestinesi stessi dichiararono orgogliosamente che il loro modello era rappresentato dagli Hezbollah. Come sarebbe poi avvenuto con il disimpegno da Gaza, avevano letto il ritiro di Israele dal Libano meridionale come una “vittoria del terrorismo”, e non come un segnale che Israele fosse seriamente intenzionale alla pace. (Comunque, a differenza di coloro che ancora rimpiangono l’uscita delle Forze di Difesa israeliane dal Libano, io penso che quella scelta non sia stata l’unico, ma solo uno dei tanti fattori scatenanti dell’intifada)
Infine, ciò che mi ha fatto perdere ogni speranza nei palestinesi fu vedere Arafat all’opera: senza concedergli alcun beneficio del dubbio, ma piuttosto prendendolo per quello che era. Che figura grottesca, che caricatura di dittatore corrotto, violento, isterico e megalomane. La volta che l’ho visto di persona fu agli inizi del 2001, alla Muqata (il quartier generale a Ramallah), quando il segretario di stato Usa Colin Powell venne ad incontrarlo. Arafat, dopo essersi rivolto a Powell chiamandolo “generale”, sfoderò uno dei quei suoi insopportabili sorrisi e disse: “Che poi, anch’io sono un generale”. E tutta la sua corte di lacchè a sganasciarsi in grandi risate per la mitica arguzia del loro raìs. Questo era l’uomo simbolo del popolo palestinese. Questo era il loro leader, la loro fonte di ispirazione sin dal 1969. Il carattere di Arafat non era casuale rispetto al carattere nazionale dei palestinesi: era il suo più autentico riflesso. Il che è una scoperta assai deprimente.
E allora, come mai sono così? Perché sono arabi, perché sono musulmani, perché sono una nazione del Medio Oriente? No, nulla di tutto questo. Abbiamo fatto la pace con l’Egitto. Abbiamo fato la pace con la Giordania. Gli altri stati arabi molto probabilmente non ci amano, ma non ci combattono continuamente. (…) Dunque il problema dei palestinesi non è affatto che sono arabi o musulmani. E non è nemmeno il fatto che non accettano il diritto di Israele di esistere come stato ebraico in Medio Oriente: quali altri arabi o musulmani in questa regione lo accettano? Eppure gli altri musulmani non combattono Israele tutti i giorni, solo i palestinesi lo fanno. La differenza è che solo i palestinesi hanno dovuto costruire la loro nazione in diretta competizione con un popolo che ha costruito la propria nazione attorno a loro. Gli altri arabi possono odiare Israele e continuare la loro vita. I palestinesi no. Gli altri arabi possono dimenticare le guerre che hanno perso contro Israele, tanto i loro paesi restano quelli di prima. Per i palestinesi, invece, le sconfitte nelle guerre contro Israele hanno lasciato il loro paese a pezzi e loro stessi divisi e sparpagliati. I palestinesi convivono ogni giorno con i frutti delle guerre che hanno scatenato e perso contro Israele. Evidentemente non possono dimenticare, non riescono a fare un passo avanti. (…)

(Da: Jerusalem Post, 5.07.06)

Nella foto in alto: il soldato Gilad Shalit preso in ostaggio il 25 giugno (in territorio israeliano) da terroristi palestinesi della striscia di Gaza