Come si dice in persiano “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”?

Con l’Iran bisogna adottare lo stesso approccio che contribuì a porre fine alla guerra fredda Usa-Urss

Editoriale del Jerusalem Post

Il presidente iraniano Hassan Rouhani lo scorso 24 settembre a New York per la 68esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Il presidente iraniano Hassan Rouhani lo scorso 24 settembre a New York per la 68esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite

“Fidarsi, ma verificare” – o il suo equivalente in russo “doveryai, no proveryai” – era uno dei motti preferiti dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan durante i negoziati sul controllo degli armamenti con l’Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov. Alla fine quei negoziati diedero frutti ed entrambe le superpotenze demolirono migliaia di missili, nucleari e convenzionali, da crociera e balistici a media gittata (i cosiddetti “euromissili”).

Oggi gli Stati Uniti e le altre nazioni dovrebbero adottare la versione in persiano di quell’approccio, rispettoso ma diffidente, nel momento in cui l’Iran manda segnali di disponibilità ad avviare negoziati sul suo programma nucleare.

Da un lato l’amministrazione Obama, l’Unione Europea e gli altri paesi hanno il dovere di prendere per buone quelle che appaiono come delle aperture del presidente iraniano Hasan Rohani. Respingere quello che potrebbe essere un sincero tentativo di riconciliazione può voler dire perdere un’occasione più unica che rara per fermare, con la diplomazia pacifica, la marcia della Repubblica Islamica verso le armi nucleari.

Allo stesso tempo, tuttavia, la Casa Bianca non deve lasciarsi indurre ad allentare le sanzioni economiche, che stanno mettendo a dura prova l’economia iraniana e generando agitazione politica, senza aver prima ottenuto prove concrete e verificabili che gli iraniani stanno davvero mettendo fine al loro programma per armi nucleari.

Purtroppo sembrano esservi parecchi motivi per diffidare delle intenzioni di Rohani e ben pochi motivi per credere che i mullah siano davvero disposti a rinunciare alle loro aspirazioni sulla Bomba.

Innanzitutto, il programma iraniano di armamento nucleare è al centro delle più profonde convinzioni del regime circa la sua vulnerabile posizione in quanto singolo stato sciita in un Medio Oriente dominato dai sunniti. Durante la guerra Iran-Iraq del 1980-’88, quando la Repubblica Islamica perdeva decine di migliaia di giovani ogni mese contro gli iracheni sostenuti dagli Stati Uniti, i capi iraniani iniziarono a vedere le armi nucleari come la loro estrema ultima carta. Lo stesso argomento riecheggia oggi, mentre in Siria il presidente alawita Basher Assad, sostenuto dall’Iran, e altre minoranze non-sunnite combattono per la vita o la morte contro una coalizione finanziata dagli stati del Golfo allineati con l’Occidente.

In secondo luogo, il trionfo di Rohani nelle recenti elezioni presidenziali non deve essere frainteso come l’avvio di un’era di moderazione e razionalità nella politica iraniana. Deve essere visto piuttosto come un cambiamento di tattica. E’ probabile che Rohani stia tentando una strategia del “divide et impera” in cui gli europei, verosimilmente più sensibili alla sua “offensiva del sorriso”, vengono contrapposti agli americani. E Israele, sotto la guida del primo ministro Benjamin Netanyahu, potrebbe trovarsi in rotta di collisione con la Casa Bianca su questa questione. Come minimo, è plausibile che Rohani stia agendo in base alla ragionevole convinzione che il rozzo approccio conflittuale di Mahmoud Ahmadinejad abbia solo danneggiato il programma nucleare iraniano, mentre i sotterfugi e una falsa aura di moderazione potrebbero promuovere gli obiettivi iraniani in modo ben più efficace.

In terzo luogo, l’Iran ha motivo di ritenere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non fanno sul serio per quanto riguarda il supporto alle sanzioni con l’azione militare. Oggi non siamo nel 2003, l’anno in cui l’Iran effettivamente congelò per un certo tempo il suo programma nucleare per paura che il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, che stava ammassando uomini e armi per l’invasione dell’Iraq, se la prendesse subito dopo anche con la Repubblica Islamica. Oggi, come dimostrano le difficoltà incontrate dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e dal primo ministro britannico David Cameron nel raccogliere il sostegno politico all’ipotetico intervento militare in Siria, l’Occidente è stanco di guerre.

Lavori per lo smantellamento di un missile in applicazione dell’Intermediate Nuclear Forces Treaty (INF), siglato a Washington l'8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov.

Lavori per lo smantellamento di un missile in applicazione dell’Intermediate Nuclear Forces Treaty (INF), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov.

Date queste circostanze, prima di accettare qualunque allentamento delle sanzioni economiche gli Stati Uniti e le altre nazioni dovrebbero esigere passi concreti e verificabili che non si limitino a ritardare di qualche mese o qualche anno la data del punto di non ritorno iraniano, ma che arrestino del tutto il programma per le armi nucleari.

L’approccio “fidarsi, ma verificare” ha contribuito a porre fine alla guerra fredda tra Usa e Urss. Non dobbiamo escludere la remota possibilità che la stessa combinazione di apertura alla diplomazia e al dialogo e rigorosa aderenza alla necessaria scrupolosità possa funzionare anche nelle trattative con Teheran. Ma laddove Gorbaciov governava un’Unione Sovietica sull’orlo del collasso, i mullah al potere nella Repubblica Islamica, sebbene ammaccati per le sanzioni economiche, hanno troppe ragioni per portare avanti la loro campagna per dotarsi di armi nucleari.

(Da: Jerusalem Post, 29.9.13)