Come si dice Ostpolitik in ebraico?

Il falso dilemma fra est e ovest: Israele è saldamente ancorato al campo occidentale, ma ciò non esclude libertà di manovra

Di Mark Regev

Mark Regev, autore di questo articolo

Si dice che la crisi internazionale sull’Ucraina ha posto Israele di fronte a un dilemma strategico impossibile. Da un lato, Israele è parte integrante dell’Occidente, che è unito nella condanna dell’aggressione russa e solidale con una democrazia che combatte coraggiosamente per la propria indipendenza. D’altro, la massiccia presenza militare della Russia appena al di là della frontiera settentrionale d’Israele impone particolare prudenza nei confronti di Mosca.

Ma nel mondo reale la scelta è inesistente. Israele è saldamente ancorato all’Occidente. La sua capacità militare, vitalità economica e abilità tecnologica sono tutte indiscutibilmente potenziate dal fatto di essere uno stretto alleato dell’America. Dal sostegno allo scudo missilistico “Cupola di ferro” alla co-partecipazione nel progetto F-35, alla protezione diplomatica nei forum delle Nazioni Unite, l’America è l’alleato indispensabile di Israele.

Non è sempre stato così. Sebbene gli Stati Uniti abbiano avuto un atteggiamento costantemente favorevole verso Israele (il presidente Harry Truman fu il primo leader mondiale a riconoscere il neonato stato ebraico), c’è stato un tempo in cui molti a Washington consideravano l’amicizia tra Stati Uniti e Israele un peso sul piano strategico. Sotto la presidenza Eisenhower, era opinione diffusa che un’amicizia troppo stretta con Israele avrebbe spinto gli stati arabi nel campo sovietico della Guerra Fredda.

Il riconoscimento dell’indipendenza dello stato ebraico firmato dal presidente Harry Truman ancor prima che se ne conoscesse il nome, aggiunto all’ultimo momento a penna (clicca per ingrandire)

Ma a partire dagli anni ’60, le successive amministrazioni si sono adoperate per rafforzare le relazioni Usa-Israele. John Kennedy accettò di vendere a Israele i missili difensivi Hawk. Lyndon Johnson fu il primo presidente a invitare in visita ufficiale un primo ministro israeliano (allora era Levi Eshkol) e Richard Nixon presiedette il ponte-aereo che portò munizioni e attrezzature militari di cui Israele aveva disperatamente bisogno durante la guerra dello Yom Kippur.

Nel corso degli anni, Washington ha progressivamente capito che Israele è un buon amico, e man mano che Israele diventava più forte, diventava un partner sempre più prezioso (nessuno desidera un alleato debole). Un fatto importante, in questo contesto, è che lo stato ebraico non ha mai chiesto l’intervento di soldati americani sul terreno per combattere le sue battaglie, ma solo i mezzi per difendersi da solo. Inoltre, a differenza degli altri alleati degli Stati Uniti nella regione, soltanto Israele condivide i valori democratici americani.

Henry Kissinger ebbe a sottolineare che le relazioni Usa-Israele a volte possono essere spinose, e gli israeliani troppo esigenti. L’allora Segretario di stato disse scherzando che se gli Stati Uniti avessero offerto gratis a Israele tutti i propri jet Phantom e Skyhawk, Golda Meir e l’ambasciatore israeliano Yitzhak Rabin avrebbero detto che Israele riceveva quello che gli spettava e che comunque aveva riscontrato alcune carenze tecniche negli aeroplani per cui li accettava senza entusiasmo. Ironie a parte, nelle memorie di Kissinger viene descritto in dettaglio lo stato rinvigorito dei legami Usa-Israele durante il suo periodo al governo (1969-1977), e nei decenni successivi l’alleanza è andata rafforzandosi ulteriormente. Due tappe degne di nota. Nel 1987 l’amministrazione Reagan designò formalmente Israele come maggiore alleato non-Nato. Nel 2016 Barack Obama finalizzò un nuovo pacchetto di difesa che garantisce a Israele nell’arco di dieci anni finanziamenti militari per 38 miliardi di dollari.

Domenica il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto appello via Zoom ai parlamentari israeliani. Il suo discorso è stato trasmesso in diretta dalle tv del paese e seguito da una folla di israeliani in piazza Habima a Tel Aviv

Tuttavia, essere uno stretto alleato americano non significa doversi necessariamente conformare in tutto e per tutto, come era il caso dei paesi dell’ex Patto di Varsavia dominato dai sovietici. Al contrario, l’appartenenza al campo occidentale comporta una notevole libertà di manovra. La posizione della Gran Bretagna nella leadership occidentale è evidente, così come l’impegno personale di Margaret Thatcher nei confronti delle “relazioni speciali” tra Usa e Regno Unito. Eppure, nella crisi delle Falkland del 1982 il Regno Unito non coordinò con gli americani la sua risposta all’invasione argentina. La Thatcher stabilì la politica britannica in base a come lei intendeva gli interessi britannici, e successivamente chiese il sostegno americano. Nonostante la ben nota intesa tra Reagan e Thatcher, inizialmente Washington era riluttante a prestare pieno appoggio: gli Stati Uniti avevano i loro interessi in America Latina. Alla fine l’America si adeguò alla politica britannica.

Il francese Charles de Gaulle fu un gigante dell’alleanza occidentale. Eppure nel 1966 fece uscire la Francia dalla struttura militare integrata della Nato. E nonostante l’opposizione americana, de Gaulle costruì la Force de frappe, il deterrente nucleare indipendente della Francia. Più di recente, la Francia si è notoriamente rifiutata di sostenere l’attacco di Stati Uniti e Regno Unito all’Iraq del 2003.

Durante la Guerra Fredda, la Germania Ovest era totalmente dipendente dalla protezione americana. Ma questo non impedì ai leader di Bonn di perseguire la politica indipendente dell’Ostpolitik. Nonostante le riserve di Washington, il cancelliere Willy Brandt riteneva che il dialogo con il blocco sovietico potesse rafforzare la posizione della Germania occidentale, in particolare nei confronti della Germania orientale comunista.

Il Giappone rimane un alleato chiave degli americani. Ma dopo l’attentato del 2018 con gas nervino contro il disertore russo Sergei Skripal in Inghilterra, dei paesi del G7 solo il Giappone si tenne a distanza dal consenso occidentale. Mentre 28 paesi seguivano il Regno Unito nell’espellere diplomatici russi per rappresaglia, Tokyo non lo fece preferendo dare priorità ai suoi negoziati con Mosca sul destino delle contese Isole Curili. Come il Giappone, anche Israele non espulse diplomatici russi in seguito all’incidente di Skripal: la situazione in Siria lo costringeva a dare la precedenza al mantenimento di canali di comunicazione aperti con Mosca. E coloro che criticano questa posizione di Israele dovrebbero ricordare che è stato l’Occidente a consentire in Siria il vuoto di potere che ha aperto le porte al rafforzato intervento militare della Russia nel 2015.

Settembre 2021: truppe russe entrano a Daraa al-Balad, nella provincia meridionale siriana di Daraa, non molto distante dal confine con Israele

Per la sicurezza nazionale di Israele, gli sviluppi in Siria sono di vitale importanza. L’aviazione israeliana attacca regolarmente obiettivi iraniani e Hezbollah, e talvolta quelli che fanno capo al regime di Assad. Nonostante siano tutti alleati dei russi nel conflitto interno siriano, Mosca ha scelto di non intervenire. Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin hanno raggiunto delle intese che preservano la libertà d’azione di Israele, e Naftali Bennett è deciso a mantenere quegli accordi.

Comunque, il dialogo tra Gerusalemme e Mosca comporta dei vantaggi anche per l’Occidente. Talvolta, paesi che non hanno accesso al Cremlino si sono rivolti a Gerusalemme per far pervenire riservatamente un messaggio a loro nome. E in tempi di crisi come quelli attuali, il canale di Israele con la Russia assume ancora maggior significato. È stato riferito che durante la sua recente visita a Gerusalemme, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto a Bennett di “utilizzare i contatti speciali di Israele con Russia e Ucraina” per contribuire a porre fine alla guerra. Il Segretario di stato americano Antony Blinken ha accolto favorevolmente la mediazione israeliana, così come il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha menzionato Gerusalemme come possibile luogo per i colloqui Mosca-Kiev.

Nonostante i commenti che affermano il contrario, la crisi ucraina non mette Israele di fronte a un catastrofico dilemma est-ovest: lo stato ebraico è saldamente e inequivocabilmente legato a Stati Uniti e Occidente. Ma l’appartenenza al campo occidentale non nega a Israele la possibilità di condurre un approccio calibrato nei confronti della Russia. E sebbene il canale Gerusalemme-Mosca sia pensato innanzitutto per promuovere gli obiettivi israeliani, senza dubbio serve anche interessi occidentali più ampi. Come si dice Ostpolitik in ebraico?

(Da: Jerusalem Post, 17.3.22)