“Comma 67” sulla strada per la pace: un libro propone di uscire dagli schemi fissi della discussione fra destra e sinistra

Ma rimane la domanda: ha senso un dibattuto tutto israeliano se dall’altra parte non c’è nessuno che raccoglie le proposte?

Di Ron Kronish

Ron Kronish, autore di questo articolo

Ho appena finito di leggere il best-seller di Micah Goodman intitolato Catch ‘67 (“Comma ‘67”, per ora disponibile solo in ebraico). È ben scritto e ben argomentato, con un’analisi molto accurata del pensiero profondamente dicotomico che divide la sinistra e la destra della politica israeliana, e offre alcune nuove idee pensate fuori dagli schemi per affrontare il conflitto persistente, irrisolto e probabilmente non tanto presto risolvibile, tra stato d’Israele e Autorità Palestinese.

Micah Goodman è uno dei più promettenti fra i giovani filosofi ed educatori ebrei, oggi in Israele. Fondatore e direttore dell’accademia di studi ebraici Ein Pratt, docente presso l’Istituto Shalom Hartman e autore di diversi importanti libri di pensiero ebraico assai popolari, si accosta a questo argomento da studioso ed educatore, e non come un politico pronto a dare risposte semplici a problemi complicati. Uno dei principali scopi di questo suo libro, e della sua opera educativa da parecchi anni, è quello di spingere le persone che hanno punti di vista radicalmente diversi fra loro ad ascoltarsi l’una l’altra e prestarsi reciprocamente attenzione, nella consapevolezza che nessuna delle due parti nel dibattito politico in Israele detiene il monopolio della verità, e che pertanto è necessaria una buona dose di misura, umiltà e sottigliezza se si vuole comprendere veramente come mai, per quanto riguarda la pace, siamo bloccati in una trappola e nell’impossibilità di uscirne facilmente.

Micah Goodman, autore del libro Catch ’67

Qual è la trappola che Goodman chiama Catch ’67 (un chiaro rifermento al noto romanzo di Joseph Heller Catch 22, in italiano Comma 22)? È l’incapacità di arrivare a un accordo di pace tra israeliani e palestinesi nonostante i promettenti inizi del processo di pace di Oslo nei primi anni ’90. È anche l’incapacità e l’impossibilità pratica di raggiungere un consenso su cosa si debba fare in merito, risultato dell’eterno dibattito in corso nella società israeliana da 50 anni, cioè dalla fine della guerra di sei giorni del giugno ’67. Lo stato di Israele vinse quella guerra militarmente, ma perse la battaglia diplomatica giacché mezzo secolo dopo Israele si trova ancora di fronte al dilemma su che fare dei territori conquistati in quella guerra e come rapportarsi con i palestinesi che vivono in quei territori. Questa discussione va avanti ininterrottamente da mezzo secolo con entrambe le parti, sinistra e destra, che si trincerano e incagliano sempre più, senza che ne venga fuori una soluzione complessiva realmente fruibile o perseguibile nel futuro prevedibile, né alcun intesa all’interno della popolazione israeliana (che tende a eleggere ripetutamente gli stessi politici) su come andare avanti.

Il “Comma ’67” consiste in questo (per usare le parole di Goodman):

«La destra israeliana pensa che le idee della sinistra non siano solo sbagliate, ma anche pericolose. Il ritiro dalle montagne di Giudea e Samaria (Cisgiordania) ridurrebbe lo stato di Israele a dimensioni molto ridotte e lo renderebbe molto vulnerabile, tanto da poter essere facilmente distrutto. La sinistra israeliana pensa che le idee della destra non siano solo sbagliate, ma anche pericolose. La continua presenza militare e civile nei territori contesi indebolirà Israele moralmente, lo isolerà diplomaticamente e lo distruggerà demograficamente. La destra vede la sinistra esattamente come la sinistra vede la destra. La destra dichiara che realizzare la prospettiva della sinistra porterebbe alla completa distruzione dello stato, e la sinistra dichiara esattamente la stessa cosa della destra.»

Secondo Goodman, non solo ciascuna delle due parti è convinta d’essere la sola che detiene la verità, ma entrambe non ascoltano più gli argomenti dell’altra. Entrambe le parti continuano a fare quelle che l’autore definisce “asserzioni di identità”, senza che nessuna delle due sia disposta ad ascoltare i pericoli insiti in ciascuna posizione. Dopo cinquant’anni di discussioni circolari avvolte su stesse, con questo libro Goodman tenta – a mio parere, in modo efficace – di reimpostare il dibattito in modo che esso non si limiti alla ripetizione di una serie di affermazioni stranote, ma comporti realmente un ascolto attento delle profonde preoccupazioni espresse dalle persone sui entrambi i versanti del divario politico israeliano.

“Catch ’67”, di Micah Goldman, 2017

Dopo l’accurata ed esauriente analisi dei principali punti di forza e di debolezza della posizione di entrambe le parti, condotta nelle prime due sezioni del libro, Goodman dedica la terza sezione alla proposta di un pensiero fuori dagli schemi, basato su numerosi scambi di idee con esperti israeliani di sicurezza e non solo. L’autore offre pertanto una serie di idee su cui riflettere, non soluzioni superficiali né facili slogan. Ho particolarmente apprezzato questa parte del libro perché molte delle idee che vengono suggerite sono estremamente pragmatiche e praticabili, senza pretendere che tutto venga risolto in una volta sola. Infatti, Goodman sottolinea costantemente come tutti i tentativi di arrivare a una soluzione totale per problemi molto complessi non abbiano funzionato, e quindi è tempo di pensare ad altre idee anziché continuare semplicemente a ripetere slogan usurati.

In generale, le idee che presenta sono finalizzate a porre fine gradualmente all’occupazione e alla mortificazione dei palestinesi pur preservando in vario modo la sicurezza per Israele. Si tratta di proposte “pragmatiche” piuttosto complesse che meritano d’essere lette e soppesate: tutte parziali nel senso che non pongono definitivamente termine al conflitto, ma mirano a ridurlo a livelli sempre più vivibili e meno violenti pur non essendo “totalmente risolutive”, come lo stesso Goodman non ha difficoltà ad ammettere. Ad esempio, presenta l’idea di un “accordo parziale” che vedrebbe Israele ritirarsi dalla maggior parte dei territori di Cisgiordania esclusi i maggiori blocchi di insediamenti mantenendo tuttavia il controllo della sicurezza nsula valle del Giordano. Questo, dice Godman, ridurrebbe notevolmente la pesantezza dell’occupazione e libererebbe i palestinesi da molti dei problemi ad essa collegati. Al tempo stesso, a suo parere, non metterebbe a repentaglio l’esistenza dello stato di Israele.

Il vero, grande problema con tutte le idee “pragmatiche” illustrate da Goodman è che non vi sono palestinesi disposti ad accettarle, giacché a loro volta i palestinesi sono intrappolati in un “catch 67” che impedisce loro di abbandonare slogan e schemi vetusti. Si tratta di una pecca molto seria, che l’autore discute brevemente in un solo punto del libro.

Resta tuttavia meritorio e ammirevole lo sforzo di Micah Goodman di riformulare la discussione, incoraggiando e praticando un ascolto empatico dei dilemmi esistenziali in cui si dibattono gli israeliani. Goodman è un pensatore serio, un bravo scrittore e un intellettuale sensibile, sinceramente impegnato ad ascoltare attentamente le due parti in discussione: merce rara di questi tempi in Israele, per non dire fra i suoi nemici e nel resto del mondo.

(Da: Times of Israel, 4.7.17)

Si veda anche: Quella soluzione bella e impossibile