Corte dell’Aia: una sentenza illegale, irresponsabile e pericolosa

Senza dimenticare quella volta che la stessa Corte decise di non indagare la Cina, contraddicendo se stessa

La decisione della Corte dell’Aia nella vignetta di Shlomo Cohen (clicca per ingrandire)

Il presidente d’Israele Reuven Rivlin ha condannato la decisione con cui la Corte penale internazionale si è attribuita la giurisdizione per indagare Israele su presunti “crimini di guerra”. “Il tribunale dell’Aia – ha dichiarato Rivlin – è stato istituito per occuparsi di gravi atrocità che si verificano nel mondo, e non per perseguitare le democrazie dotate di una magistratura indipendente ed efficiente. Noi continueremo a prendere tutte le misure necessarie per tutelare lo stato d’Israele e i soldati delle Forze di Difesa israeliane da questa decisione politica sbagliata”.
(Da: Times of Israel, 9.2.21)

Svariati paesi del mondo hanno criticato la sentenza della Corte penale internazionale. Dopo gli Stati Uniti, anche Australia, Germania, Repubblica Ceca, Ungheria, Austria, Brasile, Uganda e Canada hanno espresso la loro opposizione. Il ministro degli esteri canadese Marc Garneau ha dichiarato: “La creazione di uno stato palestinese può essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti fra le parti. Fino a quando tali negoziati non avranno esito positivo, la posizione del Canada resta quella di non riconoscere uno stato palestinese e quindi non riconosce la sua adesione alla Corte penale internazionale”. “La nostra opinione legale sulla giurisdizione della Corte penale internazionale per quanto riguarda presunti crimini commessi nei territori palestinesi rimane invariata – ha affermato il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas – La Corte non ha giurisdizione a causa dell’assenza dell’elemento della statualità palestinese richiesto dal diritto internazionale”. “L’Australia non riconosce uno stato di Palestina” ha dichiarato la ministra degli esteri australiana Marise Payn, sottolineando che “le questioni relative al territorio e ai confini possono essere risolte solo attraverso negoziati diretti tra Israele e palestinesi. Pertanto nelle nostre osservazioni presentate alla Camera preliminare abbiamo chiarito che l’Australia non riconosce il diritto di un cosiddetto stato di Palestina di aderire allo Statuto di Roma, e la Corte penale internazionale non dovrebbe esercitare giurisdizione in questa materia”. Il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó ha affermato: “Abbiamo sempre sostenuto il diritto di Israele a difendersi e crediamo che la pace nella regione possa essere raggiunta solo attraverso negoziati basati sul rispetto reciproco. La decisione della Corte penale internazionale non ci avvicina a questo”.

Tovah Lazaroff

La sentenza della Corte preliminare non è passata all’unanimità. Dei tre giudici che la compongono – ha sottolineato Tovah Lazaroff sul Jerusalem Post – il giudice ungherese Péter Kovács si è dichiarato in disaccordo con i colleghi, Reine Adélaïde Sophie Alapini-Gansou, del Benin, e il francese Marc Perrin de Brichambau, nonché con la stesso procuratore capo Fatou Bensouda, e ha redatto un’articolata un’opinione di minoranza in cui afferma che la “Palestina” non può essere considerata uno Stato de facto ai fini del tribunale dell’Aia e che la giurisdizione della Corte non può essere pienamente estesa a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. In particolare, Kovács mette in discussione il fatto che i suoi colleghi, per motivare la loro decisione, facciano affidamento su  risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu che, per statuto, non sono vincolanti e non hanno il peso giuridico che viene loro attribuito dalla sentenza. Nella sua argomentata opinione di 168 pagine (più lunga della sentenza di 60 pagine emessa dalla Camera preliminare), Kovács porta, fra le prove, svariate dichiarazioni delle Nazioni Unite e degli stessi rappresentanti dell’Autorità Palestinese secondo cui la Palestina non è ancora considerata uno Stato.
(Da: Jerusalem Post, 7.2.21)

Yoav Limor

A partire da venerdì sera – scrive Yoav Limor du Israel HaYom – i sistemi diplomatico, giuridico e di sicurezza israeliani sono in massima allerta a causa della decisione della Corte penale internazionale. In realtà, la sentenza della Camera preliminare rimanda al procuratore capo Fatou Bensouda la patata bollente della decisione se avviare o meno un’indagine contro Israele. Il mese prossimo verrà nominato il successore di Bensouda, mentre il passaggio delle consegne è previsto per questa estate. Non è ancora chiaro se entro quella data Bensouda prenderà una decisione e se sì, quale. Bensouda può decidere di avviare un’indagine come di accantonare l’idea. Ma quand’anche alla fine non vi fosse nessuna indagine, la sentenza della scorsa settimana è comunque preoccupante per Israele, che vive sotto la costante minaccia di un’escalation terroristico-militare su ciascuno dei suoi fronti: Gaza, Giudea e Samaria (Cisgiordania), Libano e Siria. Se dovesse accadere, Israele si troverebbe nella difficilissima condizione di doversi difendere sotto la costante spada di Damocle di possibili indagini penali internazionali che incombono sulla testa di ciascuno dei suoi militari e governanti. Ecco il vero guaio della decisione della Corte penale internazionale. Non solo è legalmente sbagliata (la “Palestina” non è uno Stato e certamente non ha confini chiaramente definiti). Ma è concretamente pericolosa perché è scollegata dalla realtà di sicurezza e difesa con cui deve fare i conti Israele. Le Forze di Difesa israeliane hanno certamente commesso errori, in guerra. Ma Israele indaga in modo appropriato, commina condanne e apprende dall’esperienza. Al di sopra delle Forze di Difesa israeliane c’è un sistema giudiziario indipendente che non esita a intervenire quando necessario. Dall’altra parte ci sono organizzazioni terroristiche che sfruttano la loro popolazione civile come scudi umani e agiscono espressamente contro la popolazione civile israeliana. Sotto questa prospettiva, la decisione della Corte penale internazionale non è solo un problema per Israele: è un problema per chiunque prenda parte alla battaglia globale contro il terrorismo.»
(Da: Israel HaYom, 8.2.21)

Su segnalazione di un nostro lettore, riteniamo che valga la pena ricordare che lo scorso dicembre la stessa Corte penale internazionale respinse la richiesta degli esiliati uiguri (minoranza musulmana dello Xinjiang) di indagare la Cina per l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità. Nel luglio precedente gli uiguri avevano sottoposto alla Corte dell’Aia un voluminoso dossier di prove in cui si accusava la Cina d’aver rinchiuso più di un milione di uiguri e altre minoranze per lo più musulmane nei cosiddetti “campi di rieducazione”, e persino di sterilizzare a forza le donne delle minoranze in questione. Ma il 14 dicembre 2020 l’ufficio del procuratore Fatou Bensouda dichiarò di non essere in condizione di agire perché i presunti atti sono avvenuti nel territorio della Cina, che non è firmataria della Corte penale internazionale. Nella sua relazione annuale, l’ufficio di Bensouda affermava: “Questa condizione preliminare per l’esercizio della giurisdizione territoriale della Corte non sembrava soddisfatta rispetto alla maggior parte dei crimini addotti”. (N.B. Anche Israele non è firmatario della Corte penale internazionale). Inoltre, continuava il rapporto di Bensouda, “non c’erano le basi per procedere in questo momento” su separate affermazioni circa deportazioni forzate di uiguri dal Tagikistan e dalla Cambogia verso la Cina. Infatti, oltre agli abusi contro i musulmani all’interno dei confini della Cina, i gruppi uiguri avevano chiesto alla Corte di indagare Pechino per aver perpetrato il rimpatrio forzato di migliaia di uiguri mediante arresti e deportazione illegali da altri paesi, tra cui Cambogia e Tagikistan, entrambi membri della Corte penale internazionale.
(Da: New York Times, 15.12.20 – israele.net 8.2.21)