Cosa ci guadagna Israele dai rapporti diplomatici con il Ciad?

In effetti, non sono pochi i vantaggi politici, diplomatici e strategici

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

Quando paesi come la Cina e l’India esprimono interesse in un significativo miglioramento dei legami con Israele, come hanno fatto negli ultimi anni, inevitabilmente sorgono domande su quale sia esattamente il loro tornaconto. È chiaro il motivo per cui Israele aspira a rapporti migliori con paesi che sono potenze mondiali e mercati di oltre un miliardo di persone. Ma perché questi paesi sono interessati a rapporti con il piccolo Israele? La risposta è sempre la stessa: sicurezza, intelligence, tecnologia e una corsia diplomatica verso Washington.

Ma nel caso del primo ministro Benjamin Netanyahu che è andato in Ciad domenica a ristabilire formalmente i rapporti con il paese centro-africano, la domanda deve essere rovesciata. E’ chiaro cosa vuole da Israele il Ciad, un paese povero, assetato di acqua e impegnato in una lotta con Boko Haram nella zona del Lago Ciad: vuole competenza e intelligence in fatto di armi e sicurezza, vuole imparare dall’esperienza israeliana su come difendere i confini, vuole avvantaggiarsi del know-how tecnologico d’Israele in fatto di acqua e agricoltura, vuole migliorare i legami con l’America. Ma cosa può ricevere Israele dal Ciad? Come mai il ristabilimento di rapporti diplomatici con un paese dittatoriale, povero e senza sbocchi sul mare è così importante da spingere Netanyahu a dedicargli un viaggio lampo di 23, di cui 16 di volo (bisogna aggirare lo spazio aereo di paesi come Libia e Sudan ndr) e solo sette sul suolo ciadiano?

C’è ovviamente un aspetto squisitamente politico. Le immagini di Netanyahu (che è anche ministro degli esteri) che incontra il presidente ciadiano Idriss Deby a N’Djamena figureranno certamente nella campagna elettorale, nella quale Netanyahu sottolineerà le forti relazioni che Israele ha forgiato durante il suo mandato con Cina, India, America Latina e Africa.

Il presidente ciadiano Idriss Deby (a sinistra) con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu domenica a N’Djamena

L’impennata di relazioni con l’Africa ha conosciuto, è vero, un leggero rallentamento quando il Togo, sotto pressione dei paesi arabi nordafricani, nell’ottobre 2017 ha annullato un summit già programmato fra Israele e vari paesi dell’Africa occidentale. Qualche mese dopo si parlò di riprogrammarlo in Israele, ma a quel punto Gerusalemme aveva spostato le sue attenzioni sempre più verso l’America Latina. La battuta d’arresto in Togo era arrivata dopo un paio di significativi successi in Africa, a cominciare dal summit con sette paesi che Netanyahu tenne in Uganda nel luglio 2016, nel quadro di un tour diplomatico che lo vide visitare quattro diversi paesi africani: il primo tour di questo genere di un primo ministro israeliano da quasi trent’anni a questa parte. A ciò fecero rapidamente seguito l’apertura di rapporti con la Guinea e una visita di un giorno di Netanyahu in Liberia nel giugno 2017, dove incontrò dieci leader africani in occasione di un vertice ECOWAS (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale). Poi venne la cancellazione a sorpresa del summit in Togo, ma ora la visita in Ciad ridà nuova energia all’impulso d’Israele in Africa.

Su un piano più generale, questa visita diffonde il messaggio che è possibile disaccoppiare dal conflitto israelo-palestinese le relazioni fra Israele e gli stati musulmani. Dopo che si è sostenuto per anni che i paesi arabi e musulmani di tutto il mondo non avrebbero mai trattato con Israele fino a quando non fossero stati risolti i problemi coi palestinesi, da mesi Netanyahu va dicendo – in particolare alla luce della discussa collaborazione con diversi paesi arabi, compresi quelli che non hanno rapporti ufficiali con Gerusalemme – che in realtà è vero il contrario. Netanyahu si è recato pubblicamente in visita in Oman lo scorso novembre anche se il conflitto palestinese non è ancora risolto. La cooperazione di sicurezza con l’Egitto è a livelli record, senza che il conflitto palestinese sia ancora risolto. E l’Arabia Saudita permette agli aerei da e per Israele di sorvolare il suo spazio aereo, anche se il conflitto palestinese è ben lungi dall’essere risolto. L’instaurazione di rapporti con il Ciad, un paese a maggioranza musulmana che ha interrotto le relazioni con Israele 42 anni fa sotto pressione del suo ingombrante vicino, il dittatore libico Muammar Gheddafi, personifica lo scollegamento dalla questione palestinese dei rapporti fra Israele e stati musulmani. Se può farlo il Ciad, forse allora possono farlo anche gli altri sette stati musulmani sub-sahariani con cui Israele non ha relazioni diplomatiche, come il Mali e il Sudan.

Il presidente del Ciad Idriss Deby in visita lo scorso novembre a Yad Vashem, il memoriale della Shoà a Gerusalemme

C’è poi l’aspetto diplomatico. I 54 stati africani costituiscono un blocco importante fra i 193 stati dell’Onu. Neutralizzare l’ostilità di questi paesi in modo che non votino più in modo meccanico contro Israele ad ogni occasione, significa incrinare la maggioranza automatica di cui palestinesi e nemici giurati d’Israele hanno goduto per così tanto tempo alle Nazioni Unite. Ad esempio, un mese dopo che il presidente del Ciad Deby aveva visitato Israele lo scorso novembre, il suo paese, che storicamente votava sempre contro Israele alle Nazioni Unite, non ha partecipato al voto su un provvedimento che condannava Hamas: una risoluzione contro cui il Ciad avrebbe sicuramente votato in passato. Come il Ciad, una buona metà dei 54 paesi africani non ha votato con i palestinesi in una votazione per la quale i palestinesi si erano battuti molto duramente: un cambiamento significativo degli schieramenti nell’Assemblea Generale.

Infine c’è un vantaggio strategico nell’avere rapporti con il Ciad, giacché il paese confina con Libia e Sudan e dunque per Israele significa avere una migliore capacità di monitorare da vicino gli sviluppi in quei due paesi. Fino alla rottura tra Sudan e Iran del 2016, il Sudan costituiva una componente essenziale della capacità dell’Iran di introdurre clandestinamente armi a Gaza, lungo un percorso che andava dall’Iran a Port Sudan, sul Mar Rosso, quindi in Egitto e da lì a Gaza, attraverso i tunnel del traffico d’armi. Quella via è stata in gran parte neutralizzata, ma il precedente dimostra quanto sia importante disporre di una presenza in Africa centrale: una regione che, lasciata senza controllo, può essere usata in modo molto ostile agli interessi vitali di Israele.

(Da: Jerusalem Post, 20.1.19)