Crisi di leadership

Calo di consensi sul versante israeliano, involuzione violenta su quello palestinese

M. Paganoni per NES n. 1, anno 19 - gennaio 2007

image_1552Non faremo l’errore di lodare i tempi andati, sostenendo che oggi, in Israele, non ci sono più leader della statura di una volta, si chiamassero David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzchak Rabin o Ariel Sharon. Leader – va ricordato – che ai loro tempi, quando erano al timone del paese, furono criticati e osteggiati da avversari e oppositori almeno altrettanto di quelli attuali. E giustamente, giacché è di questo che si nutre una vera democrazia.
Ciò detto, è tuttavia innegabile che Israele viva oggi una crisi di leadership, e che la scena politica appare come sospesa nell’attesa che faccia la sua comparsa una figura capace di scaldare i cuori e indicare una direzione di marcia. Sulla stampa si succedono editoriali impietosi: “Codardi al vertice” titolava Ha’aretz il 9 gennaio; “Il primo ministro è il primo imputato” gli faceva eco due giorni dopo Yediot Aharonot. Intanto, tutti i sondaggi sembrano confermare un disagio assai diffuso. Secondo il Dahaf Institute (Jerusalem Post, 10.1.07), quasi l’85% degli israeliani ritiene generalmente corrotta la leadership del paese e il 52% pensa che nessun partito politico ne sia esente. Secondo un sondaggio Dialog (Ha’aretz, 12.1.07), sono in caduta libera i consensi al partito di maggioranza, quel Kadima fondato da Sharon poco prima di cadere in coma: se si votasse oggi, solo un elettore di Kadima su cinque rivoterebbe per il partito del primo ministro Ehud Olmert, che crollerebbe così a 12 seggi dai 29 ottenuti meno di un anno fa. A questo punto non stupisce che, secondo un sondaggio Shvakim Panorama (Yediot Aharonot, 4.1.07), il 60% dei votanti Kadima preferirebbe vedere alla testa del partito l’attuale ministro degli esteri Tzipi Livni – uno dei veri astri nascenti della politica israeliana – rispetto a Ehud Olmert.
Ma se Atene piange… in campo laburista, la leadership dell’attuale ministro della difesa Amir Peretz appare da mesi in calo verticale. Di nuovo, sono i sondaggi a darne conferma. Secondo quello pubblicato da Ma’ariv l’11 gennaio, l’ex primo ministro Ehud Barak sarebbe il candidato favorito alla leadership del partito laburista con il 30% delle preferenze, seguito dall’ex capo dei servizi di sicurezza Ami Ayalon con il 23%, dall’ex ministro Ophir Pines-Paz con il 18% e, infine, dall’attuale capo del partito Amir Peretz con il 12%.
Se c’è un vuoto di leadership, è aperta la partita per occuparlo. E la partita si gioca anche sulla capacità di presentare qualche idea innovativa in fatto di processo di pace, alla luce della disperante impasse in cui si è arenato dopo la controversa gestione della guerra contro Hezbollah della scorsa estate, il tramonto delle ipotesi di ritiro unilaterale a fronte del perdurare dei lanci di Qassam dalla striscia di Gaza e delle minacce dal Libano, lo scoppio delle violenze interne palestinesi, l’irrisolta questione degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi. In questi frangenti, come è tipico in Israele, si assiste a una fioritura di nuovi piani di pace.
C’è Tzipi Livni, che in alcune interviste ha sostenuto che il dialogo con i palestinesi moderati dovrebbe essere avviato senza attendere che si realizzi la condizione iniziale della Road Map (cessazione delle violenze e del terrorismo). Non avviare il dialogo coi moderati, spiega la Livni, significa di fatto “premiare Hamas”. Secondo alcune fonti citate a dicembre dal Jerusalem Post, la Livni proporrebbe di negoziare fin da subito uno stato palestinese con confini provvisori, rinviandone l’applicazione a quando i palestinesi avranno smantellato le strutture del terrorismo.
C’è poi Amir Peretz, che l’8 gennaio al gruppo parlamentare laburista ha illustrato un piano che dovrebbe “combinare l’iniziativa di pace saudita e la Road Map”. In estrema sintesi, Peretz immagina tre fasi: stabilizzazione economica e della situazione della sicurezza, negoziati generali su soluzione permanente ed estensione della sovranità palestinese, negoziati specifici sui dettagli della soluzione permanente. Al termine dell’ultima fase si avrebbe l’attuazione degli accordi e la nascita dello stato palestinese.
E c’è anche il parlamentare laburista Ami Ayalon che, forte delle centinaia di migliaia di firme israeliane e palestinesi raccolte col moderato palestinese Sari Nusseibeh sin dal 2003 nella campagna “Voce della gente”, ha bocciato il piano del collega di partito dicendo che quello della Livni (Kadima) è migliore perché la Livni “è giunta alla conclusione che bisogna cambiare strategia e che non si deve condizionare ogni fase alla completa cessazione delle violenze”. Secondo Ayalon, infatti, “l’approccio per fasi è destinato a fallire”. Ma va anche ricordato che, stando all’ennesimo sondaggio, il 64% degli ebrei israeliani non accetterebbe di rinunciare alla famosa prima calusola della Road Map pur di avviare negoziati.
“Quello che c’è di buono in tutti questi piani – dice Ibrahim Hamdan, analista politico palestinese (Jerusalem Post, 13.1.07) – è che muovono tutti dal concetto di arrivare alla nascita di uno stato palestinese. È interessante il fatto che i leader israeliani che vogliono competere alle prossime elezioni ritengano di dover presentare nuove idee per la pace con i palestinesi”.
Più preoccupante la situazione sul versante palestinese. “Fra gli alti funzionari palestinesi intervistati a metà gennaio a Ramallah – riferisce il Jerusalem Post (13.1.07) – solo uno su quattro aveva una qualche idea dei piani di pace recentemente annunciati dai politici israeliani. E fra i palestinesi della strada è difficile trovarne anche solo uno che ne abbia sentito parlare”. I mass-media palestinesi, come i maggiori organi d’informazione del mondo arabo, hanno scelto di ignorare i piani Livni, Peretz, Ayalon. I reportage giornalistici da Ramallah e da Gaza sono centrati sulle tensioni fra Fatah e Hamas, inasprite dopo la decisione del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di mettere fuori legge la milizia creata dal governo Hamas. I più stretti collaboratori di Abu Mazen dicono d’essere troppo occupati con la violenta lotta di potere interna fra Fatah e Hamas per prestare attenzione a quello che accade sulla scena politica israeliana. Secondo Mahmoud Safiyeh, docente universitario palestinese, il processo di pace con Israele non è più in vetta alla lista delle priorità dei palestinesi. “Oggi molti palestinesi sono consapevoli che la principale minaccia per loro è la guerra civile, non l’occupazione israeliana – spiega – Molti palestinesi hanno perso fiducia sia in Hamas che in Fatah per via del conflitto interno. Ciò di cui i palestinesi hanno oggi bisogno è un piano di pace che risolva la crisi fra Hamas e Fatah e impedisca lo scoppio di una vera guerra civile” (Jerusalem Post, 13.1.07). Ma Abu Mazen non sembra persona all’altezza del compito. I suoi reiterati progetti di riforme non sembrano impressionare più nessuno. “Il presidente non sa quello che vuole – dice un importante attivista di Fatah – Vuole un governo di unità nazionale con Hamas, ma non riesce a realizzarlo. Vuole le elezioni anticipate, ma ha troppa paura per annunciarne la data. Vuole smantellare la milizia di Hamas, ma non ha preso nessuna misura concreta per farlo. Da tempo parla di riformare Fatah e le forze di sicurezza, ma non si è visto niente. Perché dovremmo prenderlo sul serio adesso? I piani di pace di Israele non sono male, ma prima di tutto dobbiamo organizzarci: abbiamo bisogno di un leader forte e determinato, con una visione politica chiara”.