Da Rabin a Trump e ritorno: il prezzo di continuare a dire no

Quando nel 2008 Olmert fece invano la sua offerta, Israele aveva ormai praticamente ceduto tutte le sue carte. L’ha ammesso lo stesso capo negoziatore palestinese Saeb Erekat

Di David Suissa

David Suissa, autore di questo articolo

Che piaccia o non piaccia “l’accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ci sono almeno due cose su cui la maggior parte di noi può trovarsi d’accordo.

Innanzitutto, che è difficile trovare nella diplomazia internazionale un disastro più grande del “processo di pace” israelo-palestinese: è il Nobel dei fallimenti diplomatici. Su questo conflitto sono state spese più energie e più sforzi che su qualsiasi altro: più dichiarazioni, incontri, copertura mediatica, rapporti, editoriali, sessioni delle Nazioni Unite, libri, proclami presidenziali, simposi, conviti ecc. Non importa a chi si attribuisce la colpa del fallimento, né se si è di destra o di sinistra. La realtà è questa: il processo di pace è passato dalla sala riunioni alla sala rianimazione e poi alla camera ardente. E’ andato a vuoto perfino lo sforzo erculeo di otto anni del presidente Barack Obama per ottenere semplicemente che le parti sedessero di nuovo al tavolo dei negoziati.

Il secondo punto evidente è che, mentre i dirigenti palestinesi continuavano a dire no alle offerte di pace, il loro prezzo continuava a salire. Si consideri la posizione base d’Israele espressa dall’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel suo ultimo discorso alla Knesset, il 5 ottobre 1995, un mese prima d’essere assassinato. Quando Rabin parlò di un’entità palestinese, non si spinse al punto di parlare di uno stato a tutti gli effetti: “Vogliamo che sia un’entità che sia meno di uno stato – disse – e che gestisca autonomamente la vita del palestinesi sotto la sua giurisdizione”. Rabin parlò anche a favore del mantenimento degli insediamenti e contro un ritorno alle linee del 1967, senza mai menzionare “scambi di terre”. Sulla sicurezza di Israele fu altrettanto risoluto: “Il confine di sicurezza dello stato d’Israele sarà situato nella Valle del Giordano, nel senso più ampio del termine”. E sulla delicata questione di Gerusalemme, Rabin dichiarò: “Innanzitutto una Gerusalemme unita … come capitale di Israele, sotto sovranità israeliana”.

Intervento di Yitzhak Rabin alla Knesset

Detto in tutta franchezza, è chiaro che Rabin stava cercando di presentare nel miglior modo possibile il processo di pace per ottenere la ratifica della Knesset a una delle sue fasi intermedie. Doveva dimostrare che andare avanti era nell’interesse di Israele e che egli era personalmente impegnato a ridurre al minimo i rischi per la sicurezza. Ma quando rileggo oggi il discorso di Rabin, non so se ridere o piangere. Penso a quanto Israele si è allontanato dalla posizione di Rabin e come, ad ogni tornante, i dirigenti palestinesi hanno continuato a dire di no e Israele ha continuato a offrire di più.

Quando nel 2008 il primo ministro israeliano Ehud Olmert fece l’ultima offerta che risulta agli atti, Israele aveva ormai praticamente ceduto tutte le sue carte. Non lo dico io. L’ha detto il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, che nel 2008 era presente ai negoziati tra Olmert e il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, e che di recente alla tv dell’Autorità Palestinese ha spiegato quanto fosse generosa l’offerta di Olmert su tutte le questioni relative allo status finale. “Olmert – ha detto Erekat –accettò tutte le richieste pubblicamente espresse dall’Autorità Palestinese e offrì persino ad Abu Mazen [attraverso scambi di terre] più dell’intera area di Cisgiordania e Gaza”.

Ovviamente Abu Mazen disse ancora di no. E perché non avrebbe dovuto? Sin dall’inizio del processo di pace, 27 anni fa, i palestinesi hanno imparato che dicendo di no ottengono un’offerta sempre migliore della precedente. Suppongo che ai tanti entusiasti geni della diplomazia non sia mai venuto in mente che questo approccio incoraggiava l’ostinazione, anziché il compromesso. È per pura coincidenza se, mentre i palestinesi continuavano a dire di no, il processo di pace agonizzava e moriva? Si può essere i più severi critici delle politiche di pace israeliane e tuttavia riconoscere che era sbagliato premiare i rifiuti dei palestinesi, e che dal discorso di Rabin del 1995 in poi Israele ha accettato molti più compromessi dei palestinesi.

Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Olp: “Olmert offrì il 100% del territorio della Cisgiordania. E’ vero, e lo posso testimoniare. Dissi ad Abu Mazen: Olmert vuole darti 20 kmq in più, in modo che potrai dire: Ho ottenuto più dei territori del 1967”. Clicca la foto per il video con sottotitoli in inglese

Tragicamente, la lunga storia dell’ostilità palestinese verso pace ha rafforzato le forze estremiste dentro Israele e aiuta a capire come mai così tanti israeliani sono diventati molto scettici sul fatto di poter trovare un vero interlocutore per la pace. Israele ha commesso la sua parte di errori, ma quegli errori avrebbero avuto ben poca importanza se i palestinesi avessero messo le carte in tavola e  avessero avanzato una seria contro-proposta. Invece non hanno fatto altro che alimentare la convinzione, sempre più diffusa in Israele e non più solo a destra, che il loro vero obiettivo non sia la coesistenza pacifica, bensì l’eliminazione – in un modo o nell’altro – dello stato ebraico. Pagare stipendi ai terroristi e continuare a insegnare l’odio verso gli ebrei nelle scuole e nelle moschee ha solo rafforzato questa opinione.

Si può detestare il presidente Trump, pensare che il suo piano sia troppo a favore di Israele e anche accusarlo d’averlo lanciato cinicamente adesso per distrarre dai suoi problemi interni. Ma se non altro per la prima volta qualcuno ha avuto il coraggio di dire ai palestinesi che c’è un prezzo da pagare se si continua a dire sempre e solo di no. Quel prezzo è il piano di pace per come lo vedeva Rabin.

(Da: jns.org, 6.2.20)