Dall’aeroporto di Pristina alla base aerea di Khmeimim: la strategia di vent’anni con cui la Russia ha messo fuori gioco l’America
Quando gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro dalla Siria nord-orientale, Mosca non poteva credere a tanta fortuna
Di Seth J. Frantzman
Il giorno dopo l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump della decisione di ritirarsi da alcune parti della Siria orientale, il presidente russo Vladimir Putin celebrava il suo compleanno. È stata una gran bella giornata, nella taiga siberiana. Putin si era vestito da escursione in montagna nella natura, con un comodo gilet verde. Nel frattempo, Trump era impegnato a gettare a mare la politica americana in Siria, punendo gli alleati dell’America sul terreno e gettando al vento anni di lavoro degli Stati Uniti solo per un ulteriore capriccio nel promuovere la sua agenda isolazionista. Putin, dal canto suo, poteva attingere a vent’anni di politica estera russa nel momento in cui si apprestava a decidere cosa fare nel caos scatenato dagli Stati Uniti.
La Russia è il principale sostenitore del regime siriano. E’ intervenuta a sostegno del regime nei momenti cruciali del conflitto siriano, soprattutto dopo il 2015 quando era chiaro che gli Stati Uniti si stavano muovendo verso l’accordo con l’Iran. L’agenda della Russia prevedeva di preservare il regime di Bashar al-Assad. Presto si sarebbe dedicata anche alla Turchia.
Putin divenne primo ministro nell’agosto 1999, quando la Russia era un paese molto diverso. Piegata dalle conseguenze della guerra fredda, la Federazione Russa era immersa nel caos e nell’incertezza con repubbliche che si staccavano, conflitti, terrorismo e disastro economico. La crisi del Kosovo del giugno 1999 segnò un momento di svolta nell’ascesa di Putin. Era segretario del Consiglio di sicurezza quando la Russia inviò delle forze all’aeroporto del Kosovo in un braccio di ferro volto a contenere le potenze americana e occidentali della Nato. Fu una limitata dimostrazione di forza, ma fu anche il segnale che la Russia era stanca di essere comandata a bacchetta e di vedere umiliati i suoi antichi alleati.
Da quei giorni del 1999 Putin si è adoperato per ristabilire la Russia come uno dei principali attori internazionali. Lo ha fatto lentamente. Iniziò con la seconda guerra di Cecenia e la guerra in Georgia del 2008. La Russia ricostruì il suo esercito e modernizzò le sue divisioni, come i paracadutisti e le forze speciali. Poi sarebbero venute l’annessione russa della Crimea e il coinvolgimento nel conflitto in Ucraina. Questo avvenne nello stesso periodo che vide il coinvolgimento della Russia in Siria. Molti pensavano che la Russia avrebbe finito per scontrarsi con la Turchia dopo che uno dei suoi aerei era stato abbattuto nel novembre 2015. Ma la Russia fu più pragmatica e cercò invece una partnership con il turco Recep Tayyip Erdogan e siglò un accordo per un oleodotto. Dopodiché iniziò a lavorare a stretto contatto con la Turchia per risolvere il conflitto siriano. In questo contesto, portò a casa l’accordo con la Turchia sui missili S-400. Ben presto Ankara, teoricamente nemica sulla questione Siria, divenne un partner.
Nel quadro degli accordi con la Turchia, i russi hanno concordato di lasciare che Ankara nel gennaio 2018 prendesse il controllo di Afrin, nella Siria nord-occidentale. L’obiettivo di Mosca era indebolire i rapporti degli Stati Uniti con l’YPG curdo. Ma non funzionò. Allora Mosca ha aspettato che giungesse il suo momento. L’obiettivo era sempre quello di sfrattare gli americani. Sotto Trump gli Stati Uniti stavano perseguendo la strategia “America first”, quindi la Russia non ha fatto altro che aspettare: finché l’America perseguiva una politica isolazionista, non c’era ragione di ostacolare il nemico mentre commette un tale errore. La Russia ha atteso, adoperandosi per aumentare la propria influenza: ha lavorato sempre più da vicino con l’Egitto in fatto di Libia ed ha aperto canali di comunicazione con l’Iraq, l’Arabia Saudita e Israele. In ognuno di questi passi la Russia vedeva un modo per strappare un alleato agli Stati Uniti.
La decisione di Trump di questo ottobre può darsi che abbia colto di sorpresa la Russia. Ma era almeno dalla fine di luglio che Mosca discuteva con Ankara dei piani della Turchia per un’operazione nel nord-est della Siria che prevedeva la creazione di una zona di controllo turco sulla maggior parte delle aree curde. I dettagli completi non erano ancora chiari. Ciò che era chiaro era che la Russia, che un tempo intratteneva stretti contatti con alcuni gruppi curdi nella Siria orientale, ora vedeva la Turchia come partner. Ma la Russia voleva che anche che nella Siria orientale facesse ritorno il regime siriano suo alleato.
Mosca sapeva che oggi nella Siria orientale giocava il ruolo che la Nato aveva giocato all’aeroporto di Pristina, in Kosovo, nel 1999. Ora gli arbitri sarebbero stati i russi e sarebbe stata la Russia a decidere cosa sarebbe successo dopo le discussioni con Ankara, Damasco e la leadership curda. A quanto risulta, i colloqui con i curdi hanno avuto luogo nella base aerea russa di Khmeimim in Siria, vero e proprio simbolo del potere di Mosca nel paese. In base a quanto deciso, il regime siriano tornerà in alcune parti della Siria orientale. I russi stessi potrebbero entrare nella Siria orientale. Arriveranno paracadutisti e forze speciali russe, o solo una polizia militare come quella che la Russia ha inviato nel sud della Siria quando il regime di Damasco ha ripreso possesso di quella zona nell’estate del 2018? Il mix di forze non era ancora stato deciso, lunedì scorso, quando la Russia ha visto gli Stati Uniti decidere di andarsene e si è affrettata a concludere un accordo tra le Forze Democratiche Siriane (prevalentemente curde ndr) e il regime siriano. Mosca non poteva credere a tanta fortuna. Più di 100.000 combattenti delle Forze Democratiche Siriane addestrati ed equipaggiati dagli americani avrebbero firmato un accordo per invitare il regime siriano a proteggere il loro popolo dall’offensiva turca. Non accadeva dal ritiro americano dal Vietnam che gli Stati Uniti subissero una tale umiliazione.
Ma qui Putin sa che deve essere pragmatico e attento. Nel vuoto creato in Siria orientale prevarranno incertezza e instabilità, come per i prigionieri dell’ISIS in fuga dalle carceri e i ribelli siriani alleati dei turchi che sono tendenzialmente estremisti jihadisti, gli uni e gli altri tesi a trucidare la popolazione locale. La Russia vuole apparire come l’attore responsabile, e non farsi trascinare nel mezzo di un conflitto.
Fin troppa carne al fuoco. Miliardi di dollari in vendite di armi alla Turchia insieme agli S-400. Preservare il regime siriano. Umiliare gli americani e dettare i termini ai loro ex partner. Vent’anni fa i russi si erano sentiti umiliati e avevano tentato invano di recuperare parte della loro reputazione nel Kosovo. Fu un gesto limitato. Ora, due decenni dopo, la situazione è drammaticamente rovesciata. Ma la Russia non è ancora una grande potenza in grado di rimpiazzare la sbiadita egemonia globale dell’America. È un paese potente che deve sfruttare la sua forza con attenzione. La Siria è un test. La Siria orientale è una chiave delle mosse finali di questa partita a scacchi. Dopodiché emergerà un nuovo direttorio, con la Russia intenta a risolvere il ruolo iraniano nella regione e le preoccupazioni al riguardo tra gli altri paesi, come Israele.
(Da: Jerusalem Post, 14.10.19)