Dedizione, difesa e coronavirus

Mandare un figlio a prestare servizio nell'esercito israeliano è una dura prova di impegno sionista, specie durante una pandemia globale

Di David M. Weinberg

David M. Weinberg, autore di questo articolo

Uno dei maggiori motivi d’orgoglio nel crescere figli in questo paese è il privilegio di vederli entrare a far parte delle Forze di Difesa israeliane. Allo stesso tempo, la massima fonte di angoscia nel crescere figli in questo paese è la necessità di mandarli a servire nelle Forze di Difesa israeliane. Orgoglio e ansia si mescolano senza sosta.

Niente di tutto questo è una novità per i lettori di questo giornale, molti dei quali hanno visto i loro figli dedicare anni della propria vita al servizio militare, e spesso in duri combattimenti. E non è una novità per me. Mio figlio maggiore ha combattuto a Gaza. Un secondo figlio è ufficiale di carriera in una posizione delicata. Anche due generi sono ufficiali. Eppure ho vissuto un’esperienza nuova, la settimana scorsa, quando mio figlio minore è stato arruolato in un’unità di combattimento in prima linea mentre tutto il paese si trova sotto la spada di Damocle del coronavirus. E naturalmente, meno di 24 ore dopo che aveva raggiunto la sua nuova base nel bel mezzo del deserto, lui e altri 20 soldati nel suo battaglione sono stati messi in quarantena perché è saltato fuori che erano stati in contatto con un portatore di coronavirus. Gli sono state date poche ore di tempo per costruirsi una tenda in un luogo isolato, circondata da un recinto. Poi li ha raggiunti un medico per controllare la temperatura e monitorare la situazione (Alla fine sono stati ammessi nei loro normali alloggiamenti una volta trascorso il periodo di quarantena richiesto). In qualche modo sapevamo che sarebbe potuta accadere una cosa del genere e che potrebbe succedere di nuovo. Quando ci sono centinaia di giovani uomini provenienti da tutte le parti della società israeliana che si addestrano, si esercitano, sudano, si fanno la doccia, dormono e mangiano insieme in spazi ristretti è difficile contenere il contagio. Gestire questa situazione mantenendo sempre pronte all’azione le unità cruciali dell’esercito è una sfida enorme.

Coronavirus a parte, la maggior parte delle conversazioni pre-arruolamento che ho avuto con mio figlio erano centrate su questioni come il temperamento, la leadership e la fede in periodo di servizio militare. Dato che la mia carriera nell’esercito è stata gloriosamente vicina a zero (ho prestato servizio nelle forze armate per una sola settimana, una volta venuto a vivere da adulto in Israele), non erano molti i consigli tattici che avrei potuto dargli, se non quello di prendersi cura di se stesso fisicamente, proteggere i suoi compagni di plotone e tutto il paese al meglio delle sue capacità, e cercare di telefonare spesso a casa.

Un soldato israeliano controlla la temperatura di un commilitone all’ingresso di una base militare

Gli ho anche detto, quando si fosse trovato in una situazione di pericolo personale diretto nei combattenti coi nemici, di sparare per primo non appena le regole di ingaggio lo consentono, e farsi le domande solo in seguito: che si preoccupasse più della propria sicurezza e di quella della sua squadra che non delle indagini di Human Rights Watch o Amnesty International. Se necessario, gli procurerò un buon avvocato.

Abbiamo anche parlato di come proteggersi spiritualmente e religiosamente: non perdere la naturale innocenza della giovinezza, non diventare troppo cinico, negativo o egocentrico, una tendenza che sembra tipica di questi tempi. Non lasciarti afferrare da questo genere di malattia, gli ho detto. Patriottismo non è una parolaccia. Sii fiero del tuo servizio militare, ho aggiunto. Abbiamo anche parlato di evitare i giudizi affrettati, dettati da ignoranza o antagonismo. Sfortunatamente il discorso politico e sociale avvelenato, oggi prevalente in Israele, porta spesso a etichette e rozzi stereotipi. Sono scorciatoie intellettuali scadenti, fatte apposta per le menti deboli e impaurite. La verità è che non c’era alcun bisogno di insegnare a mio figlio nulla di tutto questo. È un uomo molto più sofisticato, riflessivo e mite di quanto io sia mai stato. E so per certo che lui e i suoi compagni di studi religiosi riusciranno a infilare lo studio quotidiano della Torà nel loro frenetico programma militare. Sono assolutamente convinto che 20 minuti al giorno di tenace riflessione sulla Torà durante il servizio nelle Forze di Difesa valgano quanto e forse più di 20 ore al giorno di studio della Torà nella solitudine appartata di una yeshivà.

Soprattutto, io e mio figlio abbiamo avuto una lunga conversazione sul destino e la responsabilità degli ebrei. Non aveva nessun bisogno di questo chiacchierata, ma ne avevo bisogno io. Per lui, il compito che ora grava sulle sue spalle era ed è chiaro: difendere la sua famiglia e il suo paese, e farlo nel modo più morale e più coerente possibile coi valori ebraici. Ed anche, ha detto, rettificare migliaia di anni di vita ebraica da vittime indifese.

Il mio bisogno della chiacchierata era primigenio. Avevo bisogno di confermare e ricordare a me stesso come mai stavo mandando un altro figlio nel pericolo, come mai lo stavo spedendo in un “parco giochi” pieno di bombe e mitra, e come mai dovrei essere orgoglioso del fatto che trascorrerà i prossimi anni appostato ai confini con la Siria e col Sinai invece di studiare medicina all’università o la Torà in una yeshivà. Il che, ovviamente, è abbastanza strano, visto che sono io quello che tiene sempre conferenze sulla grande epopea storica del ritorno della sovranità ebraica a Sion e sul privilegio unico che è dato alla nostra generazione di poter ricostruire il popolo d’Israele nella Terra d’Israele. Sono quello che fa continua a fare la predica ai miei compatrioti religiosi ortodossi sulla nobiltà e sul dovere religioso di prestare servizio militare a difesa del paese. Sono quello che va a parlare agli incontri che promuovono l’aliyà per spiegare ai potenziali immigrati quanto i loro figli e la storia ebraica li ringrazieranno per essersi stabiliti in Israele.

Eppure, eccomi qua a cercare conferme per placare le mie paure. Conferme che mi sono arrivate in abbondanza dall’ardente dedizione e fede del mio nobile figlio. “Vai con questa tua grande forza e salva Israele” (Giudici 6:14).

(Da: Israel HaYom, 29.3.20)